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Cultura-Domenica Musica

Il profeta del reggae

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Questo articolo è stato pubblicato il 28 gennaio 2011 alle ore 06:39.

A trent'anni dalla scomparsa, avvenuta a Miami l'11 maggio del 1981, Bob Marley, rimane uno degli arcani maggiori nell'iconografia della pop music. Lo dimostra l'eco suscitata dalla notizia che Tuff Gong, etichetta discografica di famiglia, metterà in commercio dal 1º febbraio Live Forever, un doppio cd che ne documenta l'ultima esibizione in pubblico, tenutasi allo Stanley Theatre di Pittsburgh il 23 settembre 1980.
Due giorni prima, facendo jogging a Central Park, dopo un duplice show al Madison Square Garden di New York, Marley era stato colto da un malore che aveva denunciato il drammatico aggravarsi delle sue condizioni di salute. Eppure le testimonianze di chi assistette a quel concerto concordano nell'affermare che sul palco non lo diede a vedere affatto. Unico indizio che nell'aria c'era qualcosa di strano furono le strette di mano con gli spettatori delle prime file al termine dello spettacolo: gesto insolito, interpretato a posteriori come un tacito congedo del profeta del reggae dal suo pubblico. A quel punto, 35enne, Robert Nesta Marley era all'apice della popolarità. Poco più di cinque mesi prima, il 18 aprile, aveva cantato di fronte a 400mila persone accorse allo stadio Rufaru di Harare per celebrare l'indipendenza dello Zimbabwe, ex Rhodesia, tra gli ultimi stati africani a compiere il processo di decolonizzazione. Evento di straordinaria forza simbolica, considerando che fra i precetti del rastafarianesimo, religione a cui Marley stesso era devoto, vi è il ritorno alla terra madre degli eredi di quanti erano stati deportati ai tempi dello schiavismo.
Poche settimane più tardi la tournée innescata dalla pubblicazione di Uprising, ultimo suo disco edito in vita, condusse per la prima volta Marley e i Wailers in Italia: due concerti consecutivi, il 27 giugno allo stadio di San Siro a Milano, e il 28 al Comunale di Torino, che totalizzarono oltre 160mila spettatori. L'entità numerica del successo definiva l'identità del personaggio: prima star su scala planetaria originaria del Terzo Mondo. Un'eccezione, rispetto alla tradizionale egemonia angloamericana sui consumi musicali di massa: Marley aprì una breccia in quel monopolio e pose così le premesse per l'affermazione successiva della cosiddetta world music. Basterebbe questa constatazione ad attestarne la grandezza: non solo ambasciatore del reggae nel mondo, ma in assoluto figura culturalmente rilevantissima del Novecento. In Giamaica, poi, la sua portata era tale da eccedere l'ambito strettamente musicale: nel 1976, manifestando in modo esplicito il proprio sostegno a Michael Manley, candidato presidenziale del filocastrista People National Party, aveva contribuito alla sua affermazione elettorale. E le cronache dell'epoca attribuirono ai rivali del Jamaican Labour Party la responsabilità politica dell'attentato a cui Marley scampò il 3 dicembre di quell'anno: episodio che lo spinse a esiliarsi volontariamente a Londra, dove dimorò per più di un anno, rientrando poi in patria nel febbraio 1978 e celebrando l'avvenimento il 22 aprile con un happening di riconciliazione nazionale intitolato, come una delle sue canzoni più famose, One Love.

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A immortalarne la memoria sull'isola antillana è da un trentennio la festa nazionale che coincide con la sua data di nascita, il 6 gennaio: riconoscimento postumo sia dell'importanza storica del personaggio sia del suo lascito "industriale" (il peso specifico del "sistema musica" nel l'economia giamaicana è ingente, forse senza uguali al mondo su scala proporzionale). Ed è comunque opportuno ricordare che tutto ciò si fonda sul valore intrinseco della musica di cui Marley fu artefice nell'arco di una carriera ventennale. Benché non straordinario quanto i due album dal vivo più celebri (Live, registrato al Lyceum di Londra nel luglio 1975, e Babylon by Bus, tratto per buona parte da uno show tenuto nel giugno 1978 al Pavillon di Parigi) Live Forever è nitida testimonianza della qualità di quel repertorio: 19 brani in tutto, fra cui classici quali No Woman No Cry, Jamming, Redemption Song, Could You Be Loved, Get up Stand up ed Exodus, quest'ultimo in una versione così elettrica e impetuosa da lasciare attoniti al pensiero che in realtà si trattava di un canto del cigno.
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