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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2011 alle ore 09:40.
Per Maria Schneider, morta ieri a soli 58 anni, Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci era stato il film della vita, ma anche (ripeteva) una maledizione. E pensare che a interpretarlo era stata scelta dapprima Dominique Sanda, che dovette rinunciare perché incinta. Negli anni successivi, la Schneider ebbe spesso parole molto dure per Bertolucci (non per Brando), e più volte raccontò la lavorazione come un incubo. Un'esperienza traumatica, quel sontuoso e funereo happening dal quale un po' tutti uscirono come minimo turbati.
Perfino il suo partner Marlon Brando, che pure doveva averne viste di ogni tipo, disse che quel livello di lavoro su di sé era troppo anche per un attore consumato.
Poco più che ventenne, la parigina Schneider (nata nel '52, figlia non riconosciuta di un celebre attore di cinema e teatro, Daniel Gélin) divenne un'icona, in quel film girato tra quattro mura, incentrato su una devastante attrazione tra sconosciuti, cullato dalla musica di Gato Barbieri e dalla fotografia di Vittorio Storaro.
Un viso e un corpo di sconcertante novità, quasi un simbolo di quegli anni di liberazione sessuale. Nelle prime interviste, si divertiva candidamente a provocare la stampa, dichiarando tra l'altro la propria bisessualità. Ma di Utimo tango la Schneider condivise anche le vicissitudini giudiziarie: insieme al regista, al produttore e a Brando, fu infatti condannata anche lei per oscenità (due mesi con la condizionale, per la precisione).
Dopo qualche tempo andò in California senza sfondare, e in seguito non riuscì più a ritrovare una dimensione professionale che facesse dimenticare l'immagine così potente del film di Bertolucci.
Eppure, come ricordava negli ultimi tempi, aveva interpretato una sessantina di film. Spesso, in Italia: il dramma femminista Io sono mia (1977) di Sofia Scandurra, Cercasi Gesù (1981) di Comencini, Jane Eyre (1996) di Zeffirelli. E anche l'unico altro ruolo per cui la si ricorda è opera di un altro grande regista italiano, Michelangelo Antonioni. In Professione: reporter era accanto a un divo ingombrante quanto Brando, ma di una generazione successiva, Jack Nicholson, in un ruolo secondario, quasi un'apparizione metafisica.