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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2011 alle ore 08:36.
«È affascinante la similitudine tra la forza dei movimenti egiziani e iraniani per la democrazia». Shirin Neshat, regista iraniana, - Leone d'oro a Venezia nel 2009 per Donne senza uomini - come seguendo un presagio ha deciso di ambientare il suo prossimo film in Egitto, che si libera da Hosni Mubarak alla vigilia del 32esimo anniversario della rivoluzione islamica khomeinista. Con la faccia da ragazzina, nonostante i suoi 53 anni, non omette mai di indossare qualche indumento od orpello di colore smeraldo, per sottolineare il suo appoggio all'onda verde, scesa più volte in piazza contro il regime attuale.
«Ero in Egitto in dicembre e ho seguito da vicino i fermenti delle proteste, che abbiamo visto esplodere negli ultimi giorni per abbattere il governo. Qui, come in Iran, i partiti di opposizione non hanno niente di ideologico, vogliono semplicemente il cambiamento. I giovani egiziani, come quelli iraniani, sono cresciuti nella corruzione, in un ambiente oppressivo ed economicamente declinante, tra censura, arresti e torture e desiderano solo che il loro avvenire sia migliore. I punti di comunione tra i nuovi movimenti di ribellione nati nel Medio Oriente sono molteplici, anche se chiaramente si differenziano nelle espressioni di protesta in relazione al governo a cui si oppongono».
Shirin Neshat sceglie di parlare nel giorno dell'anniversario della rivoluzione islamica, anche per ricordare il collega Jafar Panahi, condannato a sei anni di reclusione e all'interdizione per vent'anni dalla professione di regista e sceneggiatore per propaganda anti islamica. La 61esima edizione dell'international film festival di Berlino provocatoriamente proietta oggi pomeriggio Offside, pellicola con cui Panahi vinse l'Orso d'argento nel 2006. Ieri la giuria della rassegna tedesca si è presentata alla stampa lasciando una sedia vuota proprio per il regista, giurato virtuale, dopo il diniego di Teheran di lasciarlo partire per Berlino. «Noi lo aspettiamo», ha detto il presidente della giuria Isabella Rossellini, «Panahi è il simbolo della libertà di espressione», sperando di ottenere lo stesso effetto delle lacrime di Juliette Binoche a Cannes, che aprirono temporaneamente al regista iraniano le porte del carcere. «Ogni festival, ogni singola campagna che accende l'attenzione sul caso di Panahi è importante», sottolinea Neshat.