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Questo articolo è stato pubblicato il 14 febbraio 2011 alle ore 14:10.
Movimenti, ombre e graffiti si sono infilati in forma tridimensionale nella 61esima edizione del Berlin international film festival. E' tornato Michel Ocelot, padre di Azur e Asmar e di Kirikù e la strega Karabà, con un mondo fatto di ombre. Felice di essere l'unico francese in competizione, ha narrato i suoi racconti fatati con uno scenario di fondo tridimensionale, a tratti coloratissimo. Sono ricomparse le atmosfere africane nella veste di un suonatore di bonghi che fa meraviglie con il suo irresistibile tam tam, allontanando le guerre e guarendo i malati. Ci sono gli abitanti tristi della città d'oro, che per mantenere i loro privilegiati palazzi devono offrire a un drago orribile quattro volte all'anno la più bella del paese.
Quando il nostro eroe ucciderà il drago e salverà la ragazza, la città vuole linciarlo. Cadono infatti tutte le costruzioni, ma il ragazzo convincerà la popolazione che è meglio vivere felici in una città di pietra. C'è poi il giovane indigeno caraibico, che infilatosi in una caverna, scivola nel regno dei morti, rischiando di lasciarci le penne. Sfugge alla mala sorte solo imbroccando la risposta giusta a tre indovinelli. Il re gli consegna il suo regno, ma il protagonista, dopo aver saputo di che cosa si tratti, preferisce tornare dalla sua bella viva e vegeta. Diversi sono i personaggi delle tante storie, raffinate per grafica ed eleganza, sulla ispirazione delle quali Ocelot è vago: «Io leggo favole di tutto il mondo. Me ne cibo e poi le rielaboro».
Il 3D
Ormai, vicino agli ottant'anni, non rifiuta più l'etichetta di creatore di film per bambini, che un tempo aborriva. «E' un cavallo di Troia. Così un adulto va a vedere le mie pellicole senza impegno e io lo raggiungo a tradimento con i miei messaggi. La soddisfazione maggiore è quando un giovane mi dice di aver pianto vedendo un mio film». Nella bellezza del racconto e dei disegni non si sentiva la necessità del 3D e lo stesso Ocelot ne conviene. «E' solo una veste diversa, una nuova opportunità per raccontare le mie storie».
Wim Wenders
Sicuramente il tridimensionale ha una sua ragion d'essere nel bellissimo documentario fuori concorso «Pina» di Wim Wenders, omaggio alla grande coreografa Bausch, scomparsa nell'estate nel 2009. Nelle danze dolenti dei ballerini, pieni di sofferenza e di morte, i corpi vengono in rilievo in ogni fibra della muscolatura per raccontare la lezione impartita loro da Pina: tirare fuori la propria natura. Capita allora che un salto, come guizzo di un pesce, di una ballerina dentro il cerchio delle braccia del partner, ne riveli l'esuberanza. Così come la disperazione della giovane che strattona la corda a cui è legata con una cintura o come il continuo rimbalzare di un corpo cieco contro una parete: non è altro che è la disperazione senza parole di certi momenti della vita. Ogni membro della compagnia testimonia con i propri movimenti e il proprio ricordo l'amore per la donna che ha insegnato loro a danzare e a riconoscere se stessi.