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Frammenti di mondo senza un centro

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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2011 alle ore 08:21.

È un altro mondo. Qui gli stati non hanno il monopolio della violenza, non hanno confini sacri, non esauriscono il senso della politica. Soprattutto non sono superiori ad altri soggetti: le metropoli, le società militari private, le 100mila multinazionali, le 50mila organizzazioni non governative (Ong) transnazionali, gli individui influenti, o le reti di criminali, di spacciatori, di terroristi. Le città, anche lontane e straniere, sono legate dalle infrastrutture – strade, ferrovie, aeroporti, oleodotti – mai dal l'appartenenza a una stessa nazione...
È il nostro mondo. Osservato però per una volta senza sovrapporgli ideologie e costruzioni giuridiche – di dubbia validità, come voleva Hans Kelsen – come la sovranità: un arcipelago con «isole di governance», che può ricordare la molteplicità senza gerarchie di Gilles Deleuze, e i rapporti di potere «mobili, reversibili e instabili» di Michel Foucault. Parag Khanna – autore, dopo I tre imperi, di How to run the World – è però lontano dal poststrutturalismo francese: la sua cultura affonda nell'empirismo e nel pragmatismo anglosassone. Al punto che la sua prepotente passione per i fatti a volte inaridisce l'elaborazione delle idee.
Il suo sguardo, così rinnovato, cerca comunque di penetrare nel futuro, tratteggiato con colori rari. «Non ci sarà nessun Leviatano Universale, nessun parlamento di tutta l'umanità, nessuna egemonia americana. Invece, andiamo vero un mondo fratturato, frammentato, ingovernabile, multipolare o nonpolare», spiega. Molti luoghi comuni crollano, allora: «L'Est non rimpiazzerà l'Occidente, la Cina non prenderà il posto dell'America, il Pacifico non sostituirà l'Atlantico: queste geografie e questi centri di potere coesisteranno in un ecosistema ipercomplesso».
Non avranno più senso i confini ex coloniali, che devono diventare «irrilevanti» per risolvere i nodi tra Palestina e Israele, Iraq e Kurdistan, Pakistan e Pashtunistan, il Sudan, la Bosnia. Si fa avanti però un "nuovo colonialismo", che non crea imperialismo ma «sovranità multiple» e non esclusive, oltre che «responsabili». Non è tuttavia un compito per le vecchie potenze: il corpo diplomatico Usa ha 5mila funzionari, «meno dell'equipaggio di una singola compagnia aerea». Il protagonista sarà per Khanna una megadiplomazia intelligente, affidata ai mille personaggi di questo nuovo ordine: dai popoli e le loro diaspore agli "statisti senza stato" come il controverso George Soros – che finanziò l'Onu a Sarajevo e le Ong "rivoluzionarie" in Ucraina e Georgia – o Jonathan Auerbach che porta investimenti in Africa.

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Tags Correlati: Bosnia-Erzegovina | Cina | Corpo Diplomatico | Francis Fukuyama | George Soros | Gilles Deleuze | Hans Kelsen | Imprese | Israele | Jonathan Auerbach | Leviatano Universale | Michel Foucault | Onu | Organizzazioni non governative | Parag Khanna | Save | Shell Italia | Stati Uniti d'America | Super-Ong

 

Il vero potere – Khanna lo sa – è però nelle organizzazioni. Le multinazionali innanzitutto. «Se la Wal-Mart vuole sostenere i diritti delle donne in Africa, l'unica cosa che deve fare è aprire un supermercato lì e assumerle», scrive, guardando a un business che si prende cura anche di altro: le banche che chiedono flussi stabili di elettricità in India, per i Bancomat, la Shell che offre istruzione alle comunità in Nigeria. Cita il manager-sir Mark Moody-Stuart: se qualcosa «è un problema per la società, è un problema per le aziende». Privato e pubblico si confondono: «In Bolivia – scrive – i cittadini sono abituati a fare lobbying verso le multinazionali per ottenere servizi che i loro governi non forniscono». Al fianco degli stati si muovono, a volte con più efficienza, le Super-Ong come Oxfam, Care, Save the Childreen o Mercy Corps, delle quali non ha più senso chiedere: «chi rappresentano?». Anche perché la liberaldemocrazia – scrive senza citare Francis Fukuyama – non ha più un valore universale: in Cina, a Singapore, in alcuni paesi mediorientali, nel mondo della megadiplomazia, assume un valore più generale l'accountability: controllo esterno e responsabilità. Per sostenere questo mondo, i mercati scompaiono sullo sfondo, e appaiono i canali di infrastrutture: «Spazi non collegati sono spazi non governati», scrive Khanna. La buona governance diventa allora «locale», e si sospetta il bisogno di un'economia dello spazio – o di una nuova geografia – che aiuti a creare, se si può, un «capitalismo kantiano, in cui le persone sono fini, non mezzi».
Quello di Khanna è un mondo medioevale, «imperi, città, imprese, chiese, orde tribali, mercenari»... Anzi, si costruisce a poco a poco l'idea che quell'era non sia finita, che sia stata solo nascosta dal mito del Leviatano: «Sarebbe facile suggerire che tutti gli stati devono essere rafforzati, e che si dovrebbe ricreare un mondo di forti nazioni sovrane. Quel mondo non è mai esistito». Dopo il suo Medioevo, Khanna non ripropone allora una nuova modernità ma – rischiando il luogo comune – anticipa un nuovo Rinascimento. Pensa proprio a Pico della Mirandola, a Leonardo, a Machiavelli, a Michelangelo, all'«umanismo intellettuale», all'«umana libertà», alla «riscoperta delle antiche saggezze». Con l'obiettivo pragmatico di salvare e migliorare le vite, di evitare le crisi, di costruire "reti". Sostituendo alla «rigida» sovranità, la «resilienza», la capacità di resistere alle mille sollecitazioni del mondo ipercomplesso. Sorge il sospetto però che nella proposta si nasconda un'altra illusione: «Non possiamo dimenticare che il Rinascimento fu un'era politicamente instabile», ammette Khanna che però, favoleggiando dell'età d'oro dell'Italia, si abbandona a un rassicurante, e non fondato, ottimismo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
how to run the world. charting a course to the next renaissance Parag Khanna Random House, New York pagg. 272|$ 26,00

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