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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2011 alle ore 08:22.
«Al mattino, come le vacche che devono essere munte, io devo scrivere»: Amélie Nothomb non ha mai fatto mistero – cioè ha sempre vantato – una precocissima grafomania. Non solo ha cominciato a scrivere presto così che, quando ha esordito nel 1992 con Igiene dell'assassino, il libro d'esordio non era che il trentesimo da lei scritto, ma questa irresistibile vocazione non l'ha abbandonata neanche a successo ottenuto: tutt'oggi si alza la mattina alle quattro e, per quattro ore, alimentata da un fortissimo tè nero keniota, va avanti qualsiasi siano gli eventi del giorno, della sua famiglia e della sua vita. Tanto che a circa una ventina di romanzi pubblicati – sta per uscire in questi giorni Una forma di vita – corrisponde una quarantina di libri nel cassetto, che non è detto vedranno la luce perché l'autrice dichiara che di questi figli-libri di cui è sempre gravida (il paragone è suo) non sa, finché li scrive, quale sarà destinato alle librerie e quale no. Nelle sue numerosissime sortite Nothomb mescola un impasto di esibizionismo e sincerità e estremismo autobiografico che, insieme ai voluminosi cappelli e alle labbra scarlatte, hanno disegnato il suo personaggio pubblico, ma sulla grafomania non si può che crederle. A parte ogni altra virtù e vizio, i suoi romanzi hanno della grafomania sia la spensierata leggerezza sia l'ossessività, che prendono corpo in una scrittura liquida capace di superare con disinvoltura ogni ostacolo e preoccupazione di credibilità, trascinando nella sua corsa di superficie banalità quotidiane e verità del cuore, citazioni colte e battute da cabaret, tragedie, delitti, amori, ogni cosa illuminata dal faro freddo della bizzarria. Lo ha detto lei stessa: «La frase più giusta sulla bellezza l'ha pronunciata Baudelaire: "Il bello è sempre bizzarro". Sottoscrivo in pieno».
Bizzarra è la sua carriera: a 33 anni era un piccolo classico della fin-de-siècle novecentesca e ha retto con maestria l'urto anche simbolico del cambio di millennio. Tra i tanti fittizi inventati a tavolino, per via mediatica o nei risvolti di copertina, l'autrice belga ha davvero i numeri per essere un caso letterario: ha venduto milioni di copie dei suoi romanzi in Francia e nei ventisette paesi in cui è tradotta; ha collezionato dozzine di premi prestigiosi; su internet, che lei non usa preferendo riempire a mano quadernetti che consegna al suo editore storico Albin Michel, i suoi fans sono legione; per giunta riceve ogni giorno centinaia di lettere di ammiratori. E bizzarra è la sua non irrilevante biografia che occupa, con oculata ripetitività, tutte le interviste con cui maternamente Nothomb accompagna i suoi figli-libri: una storia tutta vera che sembra invece il curriculum esistenziale che una scrittrice di bestseller inventa per mettere in scena un'altra scrittrice di bestseller. Non perché vi accada di tutto, ma perché vi accadono le cose giuste, quelle destinate a contare nel villaggio globale e nella sua lingua comune di temi e estremismi, di situazioni e identità fluide. Giro precoce del mondo non occidentale al seguito di genitori diplomatici che la fanno nascere (nel 1967) in un Giappone di bellezza e crudeltà; tutta la precarietà del nomadismo attuale; infine la terribile carta vincente nell'immaginario contemporaneo: un intreccio perverso e sontuoso di disturbi alimentari – alcuni davvero originali, come un alcolismo infantile – dove l'anoressia domina e produce, sullo sfondo ideale di una riparatoria bulimia, l'ossessiva presenza delle figure araldiche della fame, del cibo e del corpo, ispirando alla scrittrice quella che lei stessa definisce una forma di body art letteraria. Prima di girare il mondo per promuovere i suoi libri Nothomb ha fatto la spola tra occidente e oriente, riportandone la stessa frustrazione, estranea nella amatissima Tokio, dove ha tentato di integrarsi in un'azienda nipponica con totale insuccesso (si veda Stupore e tremori del 2001) come nella detestata Bruxelles, dove ha frequentato l'università ed è stata visitata da un sogno ricorrente: «Indosso una muta da uomo-rana, cammino sull'oceano gelato, trafiggo lo strato di ghiaccio, m'immergo e nuoto fino alle profondità più oscure. E all'improvviso scorgo in fondo all'oceano, nella luce azzurra delle acque polari, la sagoma alta e assurda del palazzo di Giustizia di Bruxelles, unico edificio sopravvissuto alla catastrofe belgo-planetaria». La grammatica del sogno sembra essere spesso la chiave del suo stile: uno stile simile a quello dei fumetti, dove l'improbabile e le sue metamorfosi allestiscono storie che pur essendo incredibili ottengono invece tutto il credito della nostra immaginazione.