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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2011 alle ore 08:23.
Fare dell'esercizio dello sguardo un'arte. Una missione. Un'ossessione. Inclinare ogni giorno l'angolo della visione all'ostinata ricerca di una nuova prospettiva. Non abbassare mai gli occhi ma non perdere, attraversando guerre, rivoluzioni, catastrofi e sussulti della Storia, la capacità di sorprendersi. E di vedere oltre. A 46 anni, 8 libri e infiniti premi alle spalle, Paolo Pellegrin, fotoreporter tra i più celebri al mondo, dal 2005 membro del l'agenzia Magnum, non ha smesso di "cercare la strada".
Oggi, che la Galleria Forma di Milano dedica ai suoi vent'anni di professione una grande mostra retrospettiva, «Dies Irae», fino al 15 maggio 2011, e un ampio catalogo (edizione Contrasto, pagg. 192, € 35,00), Pellegrin dice di non sapere cosa sia la stanchezza, la noia, il déjà vu: «La vita, per me, è ancora un mistero». Eppure di vita, davanti al suo obbiettivo, ne è passata tanta: Cambogia, Kosovo, Iraq, Darfur, Palestina e Cisgiordania, l'uragano Katrina e la tragedia dello tsunami, Haiti, l'Afghanistan, il Libano e l'Iran. Dal 1998 fino a oggi, quando, nell'Egitto in rivolta, da dove è appena tornato, ha rinnovato il proprio stupore: «Lo straordinario desiderio di libertà e di giustizia della gente in piazza al Cairo mi ha tolto il fiato. Mi sono trovato di fronte a un momento il cui significato per il Medioriente è paragonabile a quello della caduta del Muro di Berlino per l'Occidente: una rivoluzione.
E non può non emozionarti avere il privilegio di vedere la Storia che si muove davanti ai tuoi occhi». La Storia, Pellegrin, l'ha declinata in ombre, fantasmi e scie luminose, nei neri densissimi di una visione articolata in un bianco e nero dai contrasti netti, con rari intermezzi di colore. «Le mie foto – dice – sono tutte animate dallo stesso umanesimo: sento il bisogno di testimoniare l'uomo quando si trova di fronte a circostanze estreme». La sua umanità è quella che scappa dalle bombe a Bassora, quella che resiste alla fame in Africa, quella che scava nelle macerie a Beirut. È una donna che giace con la faccia riversa nella sabbia a Gaza. Un ragazzino che punta una pistola a Port-au-Prince. Vite in transito. Gente in fuga: esuli, migranti e ribelli. Equilibristi sulla soglia dell'abisso. Ogni scatto è frutto di una ricerca – «ho lavorato per anni per trovare la mia voce interiore, la mia cifra personale» – che vuol conciliare la lezione dei maestri (tra i riferimenti di Pellegrin c'è il Gilles Peres di Telex Iran, il Koudelka di Gipsies o il Robert Frank di Americans) con la tensione a intercettare la complessità del contemporaneo, a insinuare un dubbio, a negoziare un continuo cambiamento: «Perché avere un proprio stile è una conquista, ma è anche una gabbia». Ogni fotogramma è parte di un dialogo con la coscienza di chi lo guarda, di chi lo legge. È un'offerta di scambio con lo spettatore. «Se il fotografo propone un'opinione chiusa, definita, la qualità di questo scambio ne risente: per questo a me interessa di più porre domande che dare risposte». Colpiscono per l'urgenza e la potenza con cui sono poste, le domande di Pellegrin.