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Cultura-Domenica Libri

Redimersi scrivendo racconti scabrosi

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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2011 alle ore 08:22.

È potente davvero Il male naturale di Giulio Mozzi, e bene ha fatto il marchio Laurana a riproporlo dodici anni dopo la prima comparsa in libreria. Il raccontino che nel 1998 destò parecchio scandalo, Amore, nella sua nuda oggettività pedofila resta a tutti gli effetti conturbante. Si può capire la reazione di disgusto espressa allora da taluni settori di opinione pubblica; così come lecita, oggi, è la risposta lapidaria dell'autore: «Credo che il giudizio morale debba insediarsi nei modi della narrazione e non limitarne il contenuto». Sbaglia però Mozzi a ricalcare il proprio caso su quello di Pier Vittorio Tondelli e della raccolta Altri libertini, che nel 1980 scontò l'intervento della magistratura e il temporaneo ritiro dalle vendite. O per lo meno, rischia, così facendo, di impoverire un evento ulteriormente istruttivo, e tale da rinviarci più indietro, al 1960, quando Giovanni Testori portava in scena L'Arialda, subendone insieme a Visconti tutte le censure e i processi di merito. Il vero paragone è qui: e ci parla di uno scrittore religiosamente esacerbato, che si trova aggredito sul terreno del costume collettivo da fasce di pubblico più incondite e benpensanti di quanto fosse negli auspici.

Non è in causa l'ansia trascendente di Mozzi, il suo muoversi come disinibito cavaliere della fede entro una contemporaneità sociale sedotta dal Nulla. «A me – annota – non interessa fare della letteratura ...; a me interessa raccontare delle storie di redenzione parlando della redenzione come di una cosa vera». Resta da capire, a maggior ragione, perché tanto sesso e tanta pedofilia; e per qual motivo ci si fissa sul corpo e sui suoi umori stillanti se lo scopo è oltrepassarne la limitatezza profana. Va bene che il soma è la porta da cui traluce l'imago del Creatore: ciò non toglie che alla sfera di un Eros sttecentesco e persino sadiano rimanda la più parte di queste narrazioni, in prosa e in versi. Lo sbandamento di cui si discorre è giustappunto naturale, non metafisico: sta nelle viscere e nei costituenti pulsionali dell'Io, tanto più quando oscilla tra i poli di uno psichismo anoressico e di una plenitudine autodistruttiva. Facile del resto comporre i testi del volume lungo tracciati paralleli. Da un lato, con secchezza di sondaggio, abbiamo esempi di realismo medio, per lo più indirizzato a figure di adolescenti e giovani donne: Vite, Bella, Pugni, Apertura. Dall'altro una sequenza molto intrecciata di racconti, in senso ampio autobiografici, che i medesimi motivi rielaborano con spiccata drammaturgia confessionistica: Un male personale, Super Nivem (bellissimo), Splatter. In entrambi i gruppi si nota bene lo strapotere di Thanatos, che argina per ogni verso la soddisfazione promanante dai corpi. Amore e morte è il binomio davvero non nuovo che struttura nel profondo la fantasia mozziana. La palese tensione spiritualistica che pure li percorre, se mai conferisce loro un più accentuato senso colposo, di desolazione inerme e contrita: «Ieri sera sono giaciuto nel letto con Santiago e oggi tutto ciò che desidero è distruggere la mia esistenza».

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Tags Correlati: Giulio Mozzi | Letteratura | Mariele Ventre | Nulla | Pier Vittorio Tondelli | Pulp | Salvatore Satta | Visconti

 

È però solo dalla serie autobiografica che emerge il motivo destinato a rinfocolare un dissidio tanto vetusto. Vale a dire il tema del l'immortalità terrena, delle persistenze per tramite di una disseminazione inesausta delle fattezze fisiche e di carattere: «Giulio ama una persona che è morta, cioè che non possiede più la sua carne. Giulio desidera la carne delle persone che fanno vivere l'immagine della persona che è morta». Un motivo tutt'altro che ortodosso, anzi metempsichico, quasi animistico; unica risorsa a disposizione di chi voglia esorcizzare il tragico in cui è costantemente avvolto. Una specie di fissazione nevrotica, verrebbe da dire, una sinfonia infinita, risonante entro una realtà che persiste alla coscienza del narratore finché è gremita dai fantasmi dei perduti.

Un personaggio tanto luttuoso e insieme regredito si esprime di preferenza grazie agli artifici della ripetizione e dell'accumulo; ma la prosa che ne risulta ha modo di scorrere secondo i moduli di un'oralità senza enfasi: niente abbassamenti drastici, niente garbugli o afasie. E proprio perciò torna seducente; sembra il corrispettivo di una materia psichica certo cupa e ossessiva, ma dominabile. Vi si avverte persino qualcosa di calviniano, nella frequenza dei nessi logici, dei dilemmi, delle assiduità di ragionamento; qualcosa che ricorda racconti come Giornata di uno scrutatore, Guidatore notturno, taluni testi di Palomar, però trasposti in un clima di accorato deragliamento dell'Essere.

Il punto è che Mozzi, diversamente da tanti prosatori Pulp che gli sono stati coevi, sembra affidarsi a una tradizione nazionale. È ben vero che la sua narrativa attinge a una filiera cattolicissima e ottonovecentesca, da Fogazzaro a Piovene, da Testori all'ultimo Tondelli sino a Doninelli, ma senza alcuna ostilità per gli apporti di latitudine laica. Un nome se mai bisognerebbe aggiungere alla corona dei malati in religione: Salvatore Satta. Perché di qui proviene il secondo e più grande motivo che regge Il male naturale: quello dello scrittore che con il proprio dire redime i poveri di spirito, che sa trasformare in «testata d'angolo la persona più miserabile»; ma che non pertanto salva se stesso dall'estrema condanna. La colpa di cui è gravato poco ha a che fare con una mera macerazione di sentimenti, e tuttavia non concede requie: «C'è in me un male attivo, produttivo: non un male sedimentato, non una pietra interiore, ma un male che agisce, vivifica, mi fa alzare la mattina e mi manda in giro per il mondo». Il gesto scrittorio che intende chiarirne i caratteri comporta senza dubbio echi di pietà solidale, di sollecitudine sia pure peccaminosa, però in assenza di rimeriti mondani e oltremondani: «Nessuno mi perdonerà, perché io sono il perdonatore. Io, l'autore del libro, sono destinato a perdermi».

Soltanto a prezzo di tanto contrasto Mozzi sa offrirci racconti insieme religiosi e aconfessionali. Testimone di un cattolicesimo veneto passato al vaglio della secolarizzazione più spinta, egli celebra la carne mentre danna il tempo che ne ha travolto l'unicità auratica. Il problema, per lui, è come si possa «ancora parlare di dio nell'epoca del divertimento». E la risposta, dottrinariamente, c'è: occorre «una letteratura che abbia il coraggio di essere storia sacra, il coraggio di guardare le persone e le cose nella loro perennità e nella loro caducità, ma amandole».

In modo analogo predicava l'ultimo Testori, però coniugando tale impegno con un acre preannuncio di catastrofe. Mozzi all'opposto è un buon figlio del Secolo, nei giudizi, nelle esperienze: peccato non si precluda talune note di nostalgia straziata, come quando in una prosa pur bella viene celebrando la direttrice del Piccolo coro dell'Antoniano, Mariele Ventre, da poco scomparsa. Perché allora la missione recristianizzatrice stinge nel rimpianto, e la pagina si fa apologia un po' mielata di un tempo che sprofonda nel mito (catechistico).

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