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Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 15:42.
E' finito il 61° Festival di Berlino e trionfa Nader and Simin: a separation. Orso d'oro come miglior film, riconoscimento massimo all'intero cast maschile e a quello femminile. Nessun dubbio per la giuria presieduta da Isabella Rossellini, raramente in un festival internazionale si trova una tale unanimità per un film. E l'analisi è presto fatta: gli ottimisti gridano al capolavoro, i pessimisti ricordano che di solito quando si danno premi a pioggia a un unico titolo, spesso è per manifesta inferiorità dei concorrenti. L'impressione è che la verità sia nel mezzo. Nader and Simin: a separation, infatti, è arrivato dopo quasi una settimana sotto tono dell'ultima Berlinale.
Pochi film entusiasmanti, e quasi tutti fuori concorso o nella sezione "Panorama", ormai rifugio delle opere migliori e più coraggiose. E tante delusioni. All'arrivo della pellicola di Asghar Farhadi, era inevitabile che giurati e addetti ai lavori, fiaccati, reagissero con l'ovazione tributata nel palmares, nelle recensioni e, va detto, nelle proiezioni per la stampa e per il pubblico.
A questa considerazione- il film, comunque, è ben fatto, coerente e potente anche se (forse) troppo lungo- va aggiunto che Berlino adotta e coccola i "suoi" autori, quelli che ha contribuito a scoprire e lanciare. E' successo quest'anno a Josè Padilha, vincitore tre anni fa con Tropa de Elite e osannato nella sezione "Panorama" con il sequel Tropa de Elite 2 (molto più bello del primo, peraltro). E succede anche al buon Farhadi, che qui era già stato Orso d'Argento per About Elly.
Il regista iraniano fa parte di quella nouvelle vague di Teheran che ha imparato ad accarezzare i gusti occidentali, che sa comunicare con un cinema di estetica- ed etica?- universale, che fa parte di quell'Iran che vuole confrontarsi con l'esterno, che si spinge in alto e soprattutto fuori da un paese soffocato e soffocante. E, probabilmente, al trionfo ha contribuito anche l'assenza insopportabile dell connazionale Jafar Panahi, invitato e ovviamente mai arrivato- per via della persecuzione giudiziaria e l'assurda condanna comminatagli-, che ha però fatto pervenire alla rassegna una commovente lettera aperta in cui sottolineava che nonostante l'interdizione allo scrivere e girare film per 20 anni, non gli avrebbero comunque impedito di "continuare a sognare".