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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2011 alle ore 08:24.
L'elemento scatenante del la bancarotta della Parmalat – la carenza di liquidità che affligge il gruppo già alla fine degli anni Ottanta – irrompe nel film di Andrea Molaioli fin dalle scene iniziali. Le difficoltà finanziarie della famiglia Tanzi, che aumentano in modo esponenziale con la forsennata politica di acquisizioni e la diversificazione nel turismo, diventano come un filo conduttore della storia. Il rifiuto di vendere alla Kraft quando la Parmalat è ancora un "gioiellino" e l'ambizione di Calisto Tanzi di mantenerne la maggioranza assoluta anche dopo lo sbarco a Piazza Affari, perché in Italia è così che si governano le aziende, consegnano progressivamente l'impresa emiliana nelle mani delle voraci banche d'affari Usa. Il gruppo, al momento di pagare i fornitori di latte, è in affanno e le acrobazie finanziarie del l'ombroso e irascibile braccio destro di Tanzi, Fausto Tonna, interpretato in modo magistrale da Toni Servillo, non bastano mai a far quadrare i conti a fine mese.
L'azienda, in continua crescita, ha sempre più fame di liquidità e, non generandone a sufficienza, è costretta a indebitarsi emettendo bond a tassi d'interesse sempre più alti. Per di più gli antichi protettori politici di Tanzi, che gli hanno assicurato l'accesso al credito intercedendo presso le banche pubbliche, sono caduti in disgrazia con la fine della prima repubblica. L'ex segretario della Dc Ciriaco De Mita, che ci sembra di scorgere nel personaggio del senatore Crusco, non è più in grado di sostenerlo. Nella seconda repubblica, basata sul sistema maggioritario, i referenti sono cambiati tutti. Il cavaliere non ha più jolly da giocare, né amici su cui contare.
Nel 1998 l'azienda è ancora una volta fallita, come lo è stata nel 1989 prima dello sbarco in Borsa, e per sopravvivere, stavolta, non resta che passare alle falsificazioni contabili. «Se i soldi non ci sono, inventiamoceli» è la frase che Molaioli mette in bocca a Tonna, tanto il falso in bilancio non è più reato e le autorità non hanno né la competenza né il coraggio di controllare. Nasce così la Bonlat, la discarica delle Cayman in cui viene creata una liquidità fittizia di circa 4 miliardi, che nel film diventa la Im Bank. Ed è grazie a questa falsa riserva di liquidità che i vertici di Collecchio riescono a durare altri cinque anni, continuando a emettere obbligazioni e ad acquisire aziende lattiere: operazioni che fruttano fior di commissioni alle banche.
Nel film è molto enfatizzata la disastrosa «campagna di Russia», ma è in Sudamerica che Tanzi compie l'azzardo più grande, e in particolare in Brasile. Il Sudamerica diventa infatti una colonna portante dei ricavi del gruppo e il centro di vari episodi di bancarotta. Resta invece appena sfiorata la questione del concorso delle banche nel dissesto. Se si eccettuano il vago riferimento all'acquisizione della Ciappazzi, per la quale è imputato l'allora presidente di Capitalia Cesare Geronzi, e un altro (sul finale) all'emissione del cosiddetto bond Totta, l'impressione che si ha al termine del film è che la bancarotta sia stata principalmente opera di Tanzi, Tonna e dei loro collaboratori più stretti. Nessuno qui intende sminuire le responsabilità dei manager, degli amministratori e dei fedelissimi di Tanzi. Peraltro il tema del coinvolgimento degli istituti di credito non ha ancora trovato risposte definitive in sede giudiziaria. Ciò non toglie che, senza l'ingordigia delle banche, senza i camuffamenti di bilancio predisposti da banchieri e gestori di fondi compiacenti e senza l'atteggiamento pilatesco delle autorità di controllo, un "buco" da 13,5 miliardi non sarebbe passato inosservato per dieci anni. Se le banche erano veramente in regola perché avrebbero dovuto transigere nelle cause per danni avviate dal commissario straordinario Enrico Bondi? Invece le cause hanno fruttato in totale alla nuova Parmalat quasi un miliardo e mezzo di risarcimenti.
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