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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2011 alle ore 08:22.
Di Ezio Raimondi si potrebbe ripetere quanto egli scrive a proposito della Bologna di Francesco Arcangeli: «era certo che il suo "senso della città" non si riduceva a "provincia» perché anche nelle "pietre" di Bologna sentiva «battere i menomi polsi della civiltà del mondo». Con le stesse formule ha accompagnato la propria fedeltà di critico alla figura e all'opera di Renato Serra (Cesena, 1884 - Monte Podgora, 20 luglio 1915), dal primo volume Il lettore di provincia: Renato Serra (Le Monnier, 1964) al saggio che lo riconduce di Europa: Un europeo di provincia: Renato Serra (Il mulino, 1993). Dalla specola dell'Associazione e delle edizioni del Mulino, Raimondi ha fatto della sua Bologna a un tempo un luogo di "identità vitale" e una vena profonda del "sangue d'Europa" ch'egli vi ha piuttosto portato che trovato, ma sempre pazientemente incanalandolo in capillari che ne fossero consci. Così le pagine ch'egli dedica ad Alberto Graziani, filologo classico e storico dell'arte, «sulla via, si direbbe, di un classicismo moderno acceso dalla passione del reale e dal demone del fantastico, dalla spinta avventurosa e molteplice della vita nelle figure e negli eventi che sono quelli di ogni giorno, tanto più straordinari quanto più sembrano comuni». In quel «calore ordinato dell'intelligenza», in quell'"integrità affettiva" dell'anima è quasi un autoritratto dello stesso Raimondi nel quale – nella lezione del critico, nella sua testimonianza umana – «l'incanto delle immagini e dello stile coincideva alla fine con il mistero umano dell'esistenza».
Ezio Raimondi ha spesso, nei suoi saggi, unito – come qui recita un capitolo – "Le forme e i codici", in quel suo auscultare vigile le genesi e le crisi della "modernità" che ha acutamente messo in luce in un libro inobliabile: Le pietre del sogno: il moderno dopo il sublime (Il mulino, 1985). La critica d'arte per le "forme", la filologia per i "codici", la "storia delle idee" per unire le une e le altre in una generosa, alta, Geistesgeschichte che non conosce frontiere né di cultura né di epoche. Egli, come il suo Arcangeli, ha sempre illustrato – di fronte a ogni tentazione sociologica della "spiegazione" delle arti nel loro tempo – il primato che esse anno d'"anticipazione storica": «l'arte non rappresenta il contenuto di un'epoca, dà un contenuto a un'epoca». Ci ha fornito, negli anni della nostra formazione, una mappa di letture che fanno crescere (tale il senso di "autorità") e ne è prova, ora, la preziosa raccolta delle recensioni – anonime – ch'egli dettò per la rivista «Il Mulino» tra il 1958 e il 1965, anticipazioni critiche, spesso, di libri o di autori ch'egli impose poi alla stessa casa editrice e all'università italiana. Vi campeggiano – e li attendevamo – Curtius e Spitzer, Mario Praz e Alois Riegl, Erich Auerbach e Hermann Broch; ma s'insedia egualmente la contemporaneità, subito percepita nei suoi valori più maturi: da Michel Butor a Alain Robbe-Grillet, in quell'affermarsi dell'École du regard ch'egli descrive nelle linee di affinità con le arti del Novecento, in un'emula eleganza di pensiero e di stile: «La gelosia di Robbe-Grillet costituisce senza dubbio l'esperimento più riuscito, più suggestivo, dell'École du regard, sin quasi a raggiungere il valore di un manifesto di vasta risonanza culturale e di preciso significato estetico. Il racconto è lineare come una tavola di Braque: è una lunga giornata africana, in un'atmosfera di torrida inerzia, tra i filari di banani e strisciare di insetti sui muri». Proprio sul contemporaneo, Raimondi si libera da quel ritegno – che è dei grandi Maestri – di fronte all'austera sapienza di una secolare tradizione: affiora, in quei brevi ritratti, l'arioso dello scrittore che si cimenta con le movenze della scrittura recensita, dispiegando (come per le pagine su Gaston Bachelard e Jorge Luis Borges) un'estetica dell'intelligenza che culmina in un essenzialismo in cui si compenetrano immaginazione e memoria: in una parola, una psychologie d'univers (a proposito di Bachelard, La poétique de la rêverie). Raimondi sembra qui attingere a quel mimetismo onirico del quale Roger Caillois vedeva dotati i grandi scrittori, come quando gareggia con Borges nei labirinti piranesiani delle sue biblioteche: «Un mondo polveroso di congegni assurdi, di biblioteche ciclopiche dove tutto diviene vertigine, di ore perdute in un'angoscia stupefatta di cadenze cosmiche, di variazioni mefistofeliche sul colore quotidiano degli eventi più comuni improvvisamente duplici, di ombre, di gesti, di figure che la notte e il tempo impongono e sottraggono in nome di una legge inafferrabile" (recensione a Borges, Storia universale dell'infamia). La scrittura di Raimondi è tuttavia, nel suo fondo più impegnato, "giovannea", se così mi posso esprimere, aperta a un luminoso e dolente abbraccio col mondo ch'egli dichiara – come poetica, come confessione – recensendo Siegfried Kracauer, poiché l'arte «mira a esplorare la struttura della vita comune, la cui composizione varia col variare dei luoghi, dei tempi e dei popoli, presentandoci virtualmente il mondo come la "nostra casa": una casa dove il dolore di un giovane indiano è lo stesso del ragazzo di Brooklyn, di Manhattan o di Roma» (a proposito di Theory of Film. The Redemption of physical Reality, 1960).
Di questa nostra gemeine Leben Ezio Raimondi ha, con la freschezza del contemplante e l'asciuttezza del profeta, tracciato la più degna Redemption: ha reso abitale il Novecento.