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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2011 alle ore 08:21.

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Non c'è bisogno di dati, studi, statistiche: basta che ciascuna di noi immagini quale sarebbe stata la sua condizione se – con la stessa situazione familiare, lo stesso luogo geografico di nascita, le stesse caratteristiche di censo, aspetto, salute – fosse nata centocinquanta o anche cento anni fa, per capire che il Novecento è stato davvero il secolo della svolta femminile. In Italia in modo particolare. Partite in ritardo rispetto alle sorelle del Nord Europa, in questo non lungo lasso di tempo le donne italiane hanno impresso un cambiamento significativo alle loro esistenze e insieme alla storia del paese. Con un'accelerazione sorprendente quando, dopo la Seconda guerra, le protagoniste della prima generazione femminile della scolarizzazione di massa, quelle ragazze combattive e colorate che ormai sono nonne, hanno dato vita a un movimento multiforme e variegato capace di smuovere ruoli sociali, posizioni economiche, leggi scritte e regole non scritte. Ma la battaglia era vinta definitivamente, la necessità di lotta soltanto una continuazione del cammino intrapreso? Il Ventunesimo secolo, prima discretamente poi sempre più violentemente, ha dimostrato che le cose non stavano davvero così.
Vecchi fantasmi, vecchie figure di un'iconografia tratta dal feuilleton di ricordi sgradevoli e confusi – les filles de joie, le cortigiane, le donne del capo – hanno occupato l'immaginario italiano oscurando la silhouette svelta fattiva e imperfetta della donna comune, la working girl – sempre working, anche sul fronte domestico – che tutti i giorni si alza mescolando il suo carico di preoccupazioni al suo impegno di dignità e autonomia. Ma quel milione e passa di donne che il 13 febbraio sono scese in piazza non esprimevano soltanto il disagio di fronte a questo cambio di iconografia. Colpisce la riflessione che una giovane e significativa scrittrice italiana, Michela Murgia, affida alle pagine di «Parola di donna», un lessico di cento lemmi declinati al femminile da altrettante autrici raccolti da Ritanna Armeni. « Ho avuto la sfortuna di nascere quando il movimento delle donne non era più raggiungibile dalla mia posizione geo-anagrafica, se mai lo era stato. Negli anni Ottanta l'eco delle voci femministe che invocavano rispetto e diritti si era già attenuata, mutando in discorsi complessi dentro stanze al di fuori delle quali lo si sarebbe udito in misura via via sempre minore; la mia generazione intanto cresceva altrove, in un'altra ansa del tempo, attraversando la contraddizione senza riconoscerla. Da un lato beneficiavo di cose ottenute da altre, ma quella mediazione non aveva trasportato il suo senso fino a me». È vero: le cose sono andate più o meno così. Con quella smemoratezza storica insita nel corso delle generazioni molte ragazze dell'epoca del wonderbra hanno guardato con distaccata ironia, come a relitti di una preistoria folcloristica, le ragazze che un tempo bruciavano i reggiseni, nell'illusione che quella condizione di opportunità sociali e esistenziali e di rispetto della quale ormai godevano fosse un dato di natura e non il risultato di complicate e faticose contrattazioni. E senza rendersi conto che la fioritura di valore femminile nata negli anni Settanta ha continuato a infondere energia e a dinamizzare la società e la storia contemporanea.
Ma le donne in piazza oggi – e anche chi ha dissentito, chi ha consapevolmente opposto un altro pensiero e un'altra scelta – non sono né possono essere una riedizione, un remake, una icona di nostalgia, quel movimento guerriero di quarant'anni fa non può che essere un riferimento storico. In meno di mezzo secolo la scena è più drammatica e più complicata: agli arcaismi quotidiani del burka, delle lapidate, delle mutilate, delle spose coatte, della nuova schiavitù delle prostitute importate da un infinito sottomondo, si affiancano le figure di un'inedita e imprevedibile società scientificamente onnipotente di figli concepiti tecnicamente, di madri surrogate, di uteri in affitto, di donatori di seme che resteranno per sempre sconosciuti ai frutti che generano. Le donne che un tempo si battevano per l'aborto si battono oggi per la libertà di fecondazione assistita, e spesso per le donne che lavorano i figli sono un miraggio meraviglioso e impossibile non una coercizione atavica. Vecchi slogan e parole d'ordine si sono mutati malignamente nel loro contrario: se l'obiettivo delle donne è solo l'empowerment inteso come presa di potere (e non, secondo il significato originario, come aumento delle personali capacità) e se «il corpo è mio e lo gestisco io» è contraddittorio prendersela con delle ragazze che per un po' di potere sociale e economico gestiscono il proprio corpo dandolo in appalto.
Quelle donne in piazza, e le loro argomentanti antagoniste, sono l'espressione della necessità di rioccupare il centro della scena come soggetti pensanti, non soltanto come agenti di rivendicazioni – molte delle quali ovviamente del tutto legittime e inevitabili – e soprattutto come soggetti di scelta: la logica del vietato vietare, della illimitata libertà, persino la splendente cavalcata per i diritti sembrano in attesa di un radicale ripensamento alla luce del tempo presente. Più che Il secondo sesso di Simone de Beauvoir o gli scritti che oggi vengono rieditati della geniale, estrema, sovversiva Carla Lonzi, un perfetto manuale per le battaglie attuali sembra essere quel piccolo meraviglioso e terribile libro di Simone Weil, La prima radice, che ci insegna che l'unico modo per non essere sopraffatti – platealmente o subdolamente – nella lotta con il mondo è la difficile e faticosa garanzia di una personale etica della responsabilità.

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