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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2011 alle ore 08:28.

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Cristo s'è fermato a l'Aquila ( foto © Ignacio Maria Coccia)Cristo s'è fermato a l'Aquila ( foto © Ignacio Maria Coccia)

«Ma che cosa è venuto a vedere? Qui non c'è più niente, la città non c'è più. Comunque la 301 è in fondo al corridoio». L'hotel Federico II brilla su una strada ai bordi del centro. Il monumento al rugby, le macchine sul marciapiede, una coppia che si agita. Alle tre di notte sotto le mura dell'Aquila tutto sembra normale. E in camera si può scegliere tra due letti grandi e uno piccolo.

«Buongiorno. Viaggio a posto?» L'architetto Ruggero Ruggeri, 68 anni, alle sette ha già preso il caffé, letto i giornali e fatto il primo giro nei cantieri che segue. «Sembra estate, siete fortunati. Com'è l'Aquila? Vedrai». In realtà qui c'è poco da vedere, o forse troppo. Le strade sono libere ma il resto è incastrato alle 3 e 32 del 6 aprile 2009. Una scossa di trenta secondi del 9° grado Mercalli, altre 256 nel giro di due giorni. Bilancio: 308 morti, 1600 feriti, 65mila sfollati. Fra cui due signore che in albergo chiedevano il cappuccino senza schiuma. In via Don Sturzo due palazzine di quattro piani e 29 morti non ci sono più. Ma lì vicino si vedono ancora lampadari, camicie negli armadi, sedie rovesciate. Spunta anche un coniglio di pezza. Mancano solo le pareti. Torniamo verso la clinica Sanatrix. Tutte le case sono "in sicurezza", cioè fasciate da cinghie d'acciaio e tenute su da transenne, intubature, controstrutture. Un vecchio è seduto in silenzio, non si gira. Da un'autoblinda scendono i militari, verificano che tutto sia sotto controllo, ma uno si domanda cosa ci sia da controllare. La Banca d'Italia, forse, che sembra intatta: «È stata ricostruita grazie alla volontà del direttore», sospira Ruggeri. Lungo il corso tutto è pulito, perfetto. Peccato che non si possa svoltare da nessuna parte, che ogni strada a destra e sinistra sia bloccata da tubi innocenti, travi di ferro, transenne. È la zona rossa.

Scendendo verso la casa dello studente, la bocca dello stomaco reclama. Attaccati alle transenne, ci sono fiori, fotografie, lettere. L'orrore è la normalità. «Molti ragazzi avevano cominciato a sentire dei rumori», dice una signora in lacrime. «I soldi ci sono», spiega Ruggeri, «è il piano che dopo due anni ancora non c'è». Ma dopo la partenza della Protezione civile, che ha messo in sicurezza tutto il centro storico, le decisioni spettano al Comune, soprattutto al sindaco Massimo Cialente (oggi dimissionario). «Lo conosco da sempre. Qualche settimana dopo il sisma lo cercai. Stiamo pensando in grande, mi rispose». Anche dal Sole lo abbiamo cercato, più di una volta, ma senza fortuna. Ruggeri guarda avanti: «Dove devi andare adesso?».

«Mi scusi, ma prima di tutto qui c'è un obbligo di carattere morale». Giorgio De Matteis, il vicepresidente del consiglio regionale d'Abruzzo, è un medico prestato alla politica: «Nei media L'Aquila è passata come la città dei piagnoni, delle carriole che sfilano, delle polemiche sulle tasse. Non è la verità». Da due anni De Matteis si batte per trasformare il centro dell'Aquila in una zona franca, cioè a burocrazia zero, come è avvenuto in altre parti d'Europa. C'è quasi riuscito, praticamente da solo, lavorando a distanza con i funzionari di Bruxelles e i ministeri europei. «Vede? È la lettera del capo unità europeo, Maria Blanca Rodriguez Galindo. Possiamo farcela, poi faremmo zone di media imprenditoria. I soldi ci sono, gran parte dei fondi Cipe sono già stanziati, quattro miliardi più due della Cassa depositi e prestiti. Il problema adesso è spenderli. Tremonti ce l'ha detto: spendete questi, poi arriveranno gli altri. La polemica dei soldi, quindi non c'è mai stata, è Cialente ad aver dato un'immagine distorta. Forse perché è senza idee, come ha scritto Giustino Parisse sul Centro, il giornale non ostile al sindaco e alla sinistra? O forse perché l'anno prossimo si vota?». Già, il voto. Come voteranno gli abitanti virtuali dell'Aquila? Chiederanno al sindaco un piano di ricostruzione? De Matteis guarda il panorama innevato. «Il sindaco non lo vuole chiamare piano di ricostruzione, anche se la commissione governativa lo ha imposto. Ma la questione è molto semplice: il centro storico lo demoliamo o ricostruiamo? E in quale stile? Sono queste le domande a cui il sindaco deve rispondere. Manca l'idea di un progetto civile ed economico legato alla realtà del territorio». In realtà di progetti ultimati ce ne sono molti, ma pochi supportati dalle autorità locali. Dopo l'ospedale omeopatico, messo su in quattro e quattr'otto, il più importante è forse l'edificio polifunzionale per studenti, completamente sponsorizzato dal Canada. Un gioiello vuoto e ancora inagibile perché mancherebbe la firma del sindaco per l'agibilità. Un caso che fa discutere, soprattutto se paragonato alle 29 new town realizzate ex novo dalla Protezione civile, dove vivono in 15mila. «Abbiamo gli strumenti normativi», s'infiamma De Matteis, «abbiamo i soldi: ma allora perché Cialente e Gianni Chiodi (presidente della Regione, ndr.) sono in stallo? Quando non ci sono loro tutto funziona, vedi il caso Anas, una palazzina realizzata in soli sei mesi».

Cristo s'è fermato all'Aquila. O almeno, a due anni dal terremoto, così sembra consiserando le tre emergenze: urbanistica, sociale ed economica. «Non ci siamo ancora messi d'accorso se ricostruire finti palazzi del quattrocento o nuovi palazzi in vetro? Bene, anzi male. Ma siamo consapevoli invece che stiamo crescendo una generazione di disadattati, visto che di teenager sono privi di luoghi fisici e simbolici, costretti a ciondolare nei centri commerciali o ad andarsene via?».

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