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Questo articolo è stato pubblicato il 12 marzo 2011 alle ore 12:10.

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Probabilmente il pubblico anglosassone - in specie quello americano - non ha bisogno di sottotitoli, cenni introduttivi o imbeccate di sorta. Forse dall’altra parte dell’oceano sanno già tutto delle gesta degli otto nuovi artisti introdotti nella «Rock and Roll Hall of Fame». Ma visto che qui siamo in Italia e i modelli musicali dominanti sono ben altri, tanto vale spendere qualche riga per provare a tracciare il profilo dei neo-assurti all’Olimpo del rock.

Alice Cooper è uno tra i premiati più noti dell’edizione 2011 della kermesse. Sulla sua produzione musicale si potrà anche dissentire, ma di sicuro tutti converranno sul ruolo storico da lui esercitato: è stato il primo a vestire i panni del «cattivo» da Grand Guignol, quello che si trucca da morto vivente, sul palco si trastulla con animali vivi (nel suo caso un serpente) e versa all’indirizzo del pubblico un bel po’ di sanguinolenta vernice rossa. Il tutto un anno prima dell’avvento di Ozzy Osbourne, quattro anni prima dei Kiss e quando Marilyn Manson era ancora in fasce. Un saggio della mefistofelica presenza scenica del vecchio Alice? Sicuramente «School’s out» del 1972: «La scuola è finita per l’estate/ la scuola è finita per sempre/ la scuola è saltata per aria».

Di Neil Diamond più che le doti di interprete (che pure non mancavano) si ricorda la maestria di compositore. Non è un caso se già nell’84 fu introdotto nell’apposita «Songwriters Hall of Fame». Se il nome non vi dice molto, di sicuro ne conoscerete i brani. Scommettiamo? «I’m a beliver», composta nel ’66 per i Monkees, qui da noi diventerà «Sono bugiarda» di Caterina Caselli mentre «Solitary man» da lui portata al successo nello stesso anno sarà trasformata da Franco Migliacci nella «Se perdo anche te» di Gianni Morandi.

Dr. John in Italia è noto soprattutto ai musicofili più colti ed esigenti: nativo di New Orleans come la musica che suona (un blues intriso di inconfondibili atmosfere Southern), dal ’68 calca le ribalte di mezzo mondo con rara stoffa da pianista/band leader. Sentirlo dal vivo non ha prezzo: in brani come «Iko Iko» ci passa dentro tutta la storia (della muscia) americana.

In ogni cerimonia della «Rock and Roll Hall of Fame» che si rispetti c’è sempre un riconoscimento che strizza l’occhio ai gusti più popolari: quest’anno tocca a Darlene Love che negli anni Sessanta figurava tra le artiste di punta della scuderia del grande Phil Spector. Nel ’62 incise «He’s a rebel» con le Crystals e fu esattamente quello che l’America stava aspettando. Non a caso, subito al primo posto nelle charts.

Il premiato dell’edizione 2011 che in carriera ha raggiunto gli esiti artistici più eccelsi è di sicuro Tom Waits, interprete dalla voce inconfondibile (qualche critico ha scritto che «sa di whisky»), autore dal songbook importante (persino Bruce Springsteen e Rod Stewart ne hanno beneficiato), attore dalla presenza scenica travolgente (nel curriculum esperienze con Francis Ford Coppola e Roberto Benigni). Riesce a impastare jazz, blues, rumorismo e canzone d’autore come nessun altro, vanta una discografia sterminata e in tutti questi anni è rimasto sempre fedele allo stesso motto: «Preferisco un fallimento alle mie condizioni che un successo alle condizioni altrui». Che Dio l’abbia in gloria. Tom saprà restituire la cortesia a tempo debito. Cantando «Chocolate Jesus».

Che dire in merito ai non perfomer cui quest’anno andrà l’«Ahmet Ertegun Award»? Jac Holzman è attivo nel music business degli anni Cinquanta e si è inventato «giocattoli» come l’Elektra e la «Nonsuch Records». Con la prima delle due case discografiche, intorno al 1967, ha scoperto quattro ragazzotti californiani che si dimenavano sul palco al grido di «Break on through (to the other side)». Il nome? The Doors, ovviamente.

Per comprendere l’importanza di Art Rupe, invece, c’è da risalire all’era in cui uomini d’affari in doppio petto viaggiavano verso Sud in cerca di artisti in grado di incidere hit a uso e consumo dei teen ager. La vita di Rupe cambiò quando scovò Little Richard, un lavapiatti nero che battendo sui tasti del pianoforte urlava «Tutti Frutti». La vita di Rupe e non solo.

In ultimo c’è Leon Russell, polistrumentista nativo di Lawton Oklahoma che in oltre quarant’anni d’attività ha infilato il suo organo Hammond, il suo pianoforte e la sua chitarra in un centinaio di collaborazioni diverse, senza contare i 38 dischi da lui direttamente realizzati. Memorabile la sua performance nel Concert for Bangladesh, alle prese con la «Jumpin’ Jack Flash» dei Rolling Stones. Da sola varrebbe l’introduzione nella «Rock and Roll Hall of Fame».

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