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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2011 alle ore 08:20.

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Kiss kiss, bang bang. Non è il titolo di un western, ma avrebbe potuto esserlo. Anche se, al momento giusto, in questo genere di film e di romanzi sono gli spari a fare aggio sui baci. Pistolettate, fucilate, persino qualche raffica di quelle mitraglie a manovella che, dal nome del suo inventore, erano note come «Gatling guns». Insomma l'azione. L'avventura.
E dire che la conquista del West, prima di prendere una sua forma epica – cowboy e indiani, fuorilegge e sceriffi, biscazzieri e cacciatori di taglie –, era stato un esodo di carovane verso una terra promessa che non aveva mai conosciuto l'aratro. Al di là del Mississippi e oltre le praterie, dove per quasi mille miglia non c'era un albero da cui ricavare una stanga o un manico di scure, la conquista del West fu, di fatto, un'affermazione della vita rustica.
Ma le cose non andarono così al cinema. Sul genere pastorale prevalse la chanson de geste, e l'immagine del mandriano a cavallo si impose su quella del pioniere curvo sopra le zolle. E tutt'attorno, per dare risalto e spessore agli eroi – molto spesso solitari: uno contro tutti – un esercito di brutti ceffi. I cattivi. Senza i quali il western non avrebbe avuto storia.
E invece la sua storia – diciamo pure il suo epos – è continuata e continua. Si sono levate periodicamente accuse e lamentele, e nell'ultimo scorcio di secolo, più o meno da quando Edward Said ha creato un precedente mostrando che il mito dell'Oriente è un'invenzione culturale dell'Occidente, anche le vestali unisex del politicamente corretto hanno sollevato a destra e a manca il coperchio dell'acqua calda. Quella del West – hanno detto e scritto – è solamente una leggenda. E non si può davvero dargli torto. Il fatto è che, per le leggende – dall'America al Giappone, passando per l'Italia di Sergio Leone –, il pubblico non ha mai smesso di mostrare interesse.
L'uscita in questi giorni di un classico come Il Grinta di Charles Portis, a cui seguirà a breve Il Paese di Dio di Percival Everett, impone almeno una considerazione. E cioè che detto Grinta, è uscito anche nella versione cinematografica dei fratelli Coen ed è un remake del film con John Wayne, ma è, stilisticamente, tutt'altra cosa; mentre Il Paese di Dio (2003) di Everett è una variante ulteriore – una parodia in senso postmoderno – di un genere che è venuto sempre più a somigliare a un contenitore in cui si può mettere quel che si vuole. La prova sta nel fatto che è in arrivo anche un western-fantascienza, Cowboys and Aliens, interpretato da Daniel Craig e Harrison Ford. Ma non è la contaminazione il problema. O non ci aveva già pensato Ariosto a spedire sulla Luna il paladino Astolfo in quel poema che Antonio Baldini aveva spiritosamente indicato come un antesignano del western? Piuttosto, bisognerebbe chiedersi quali siano le componenti irrinunciabili perché un film o un libro possa venire assegnato a questo genere o sottogenere. Le risposte sono due. La prima è ovvia e ha a che fare con la geografia. L'incontro con gli indiani e gli spazi aperti – la frontiera – in cui si avventurano cento anni prima di Tom Mix i personaggi di James Fenimore Cooper, che del western è un prozio.
La seconda risposta – il tipo di umanità – contraddirebbe però in parte la prima, perché uno dei padri fondatori, e cioè Bret Harte, ambienta le proprie storie lontano dalle praterie. Ci sono gli indiani e ci sono i cercatori d'oro, abbruttiti dalla bramosia o dalla frustrazione, ma non ci sono né trapper né cowboy. Lo scenario non sono gli spazi aperti ma, semmai, l'accampamento e il saloon. E tuttavia Harte ha messo in circolazione un paio di "tipi" – il giocatore di professione e, soprattutto, la puttana dal cuore d'oro – che hanno lasciato il segno nella storia del western.
È però troppo grande il territorio chiamato West o Far West perché se ne possa avere un'immagine coerente dai successori di Harte, cioè dagli scrittori veristi e regionalisti. La leggenda aveva cominciato a prendere forma – una forma sguaiatamente sensazionale – con i cosiddetti dime novel degli anni Sessanta, che avevano "inventato", cioè trasformano in eroi, personaggi dall'incerta biografia come Buffalo Bill. Il tocco finale lo diede però Owen Wister, antico sodale di Theodore Roosevelt, con un libro, The Virginian, pubblicato nel 1902 e da noi tradotto a suo tempo da Longanesi, che fece «risurgere per li rami» il codice d'onore dei romanzi medievali che era stato di Walter Scott. Creò, insomma, l'archetipo e indicò lo stretto necessario per mettere in piedi una storia. Ci vuole un lui, e poi una lei (anche se non sempre); ci vuole l'altro (il cattivo) e, soprattutto, le regole del duello. Ero un ragazzo e ricordo ancora la recensione di un critico, sintetico quanto sussiegoso, a un film di nessuno spessore. Due parole soltanto: «Si spara». Era quello che volevo sapere.
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per approfondire
il grinta
Charles Portis
Traduzione di Marco Rossari
Giano, Milano
pagg. 176 | € 15,00
il paese di dio
Percival Everett
Traduzione di
Marco Rossari,
Nutrimenti, Roma
pagg. 256 | € 16,00
hollywood westerns
and american myth
Robert B. Pippin
Yale University Press
pagg. 198 | $ 35,00
l'invenzione
del west(ern)
a cura di Stefano Rosso
Ombre Corte, Verona
pagg. 190 | € 18,00

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