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Questo articolo è stato pubblicato il 14 marzo 2011 alle ore 12:16.

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L'editing non è una questione letteraria. Non è l'undicesimo comandamento, trovare sempre le mot juste. Non è un lavoro di lima, né la mania di cancellare gli aggettivi, o correggere il punto di vista. L'editing di un romanzo è una fuga dalla distrazione. Non c'è stato mai, prima d'ora, un frangente storico in cui l'uomo si sia trovato così a contatto con voglie, necessità risolte, impulsi accessibili spenti e accesi. L'era digitale è soprattutto questo, e non c'è nulla di intrinsecamente negativo; è la materia di cui siamo fatti: corpi poco celesti, lanciati nella cronaca universale della distrazione. Tutto va bene, fino a quando non si firma il contratto per scrivere un romanzo, e lo si scrive di nuovo, e lo si scrive una terza e una quarta volta, e l'editore è qualcosa di diverso dal misto di ufficio stampa e distribuzione che sono diventati molti marchi anche prestigiosi. Vorrei raccontare come l'essere umano più distratto del mondo si è trasformato in un romanziere. Quell'essere umano non è chi scrive. Sei tu che leggi – e hai un libro nel cassetto, oppure no, ma molto probabilmente sì – e non riesci più a leggere venti pagine di seguito perché potresti morire senza consultare la posta elettronica, e suoni la tastiera del telefono come un piccolo piano cieco, e se ora inserissi in questo articolo il nome di Trisha Donnelly, senza alcun motivo, andresti subito a vedere chi è. E nel tuo cervello si agiterebbe una festa di connessioni senza fine, in cui pensi tre cose contemporaneamente, volendo essere tre persone diverse nella medesima mattina, assorbendo ogni discorso ascoltato al ristorante, in metropolitana, sotto il rombo ipnotico di un volo che sta per decollare. Il mondo nella testa, e il mondo senza testa, e la testa senza mondo: così scriveva Elias Canetti suddividendo i capitoli di Auto da Fè, nel 1935. Ora puoi immergerti in tutte le interpretazioni del Quartetto opera numero 15 di Beethoven, suonato dagli Emerson, dal Quartetto Italiano, dal Tokyo Quartet e altri ancora; o puoi passare in rassegna film stupefacenti soltanto scorrendo la lista della Criterion Collection, da I fidanzati di Olmi a Bigger than Life di Nicholas Ray, e poi farti catturare dalla «Virginia Quarterly Review», una magnifica rivista letteraria americana, oppure tuffarti in un nuovo libro fotografico su David Bowie, o nelle immagini di Popeater.com. L'universo conosciuto è infinitamente ricco di cose più concluse di te, e più urgenti, e più vicine che mai: e l'offerta culturale è solo un frammento di un frammento. Ma la curiosità può portare alla disperazione, ed è la peggior nemica della stesura di un romanzo: è infernale, ma è anche la sola promessa mantenuta nell'esistenza psichica privata di vere credenze. Ecco il punto. Per far venire al mondo un romanzo con un certo grado di serietà devi credere in qualcosa. E devono crederci i tuoi editori, perché si pubblicano migliaia di volumi alla settimana, e la concentrazione è una delle forme inerenti a qualsiasi fede.

Ho scritto un romanzo che ha per protagonista un vero e proprio mago dell'assenza di concentrazione: ossessionato dal l'idea di farsi prestare denaro, e ossessionato dal bisogno di cambiare faccia ogni volta che risorse, voglia, energia vengono meno. Inizia come allievo di una scuola di giornalismo, poi si mette a fare l'artista concettuale, poi l'impresario teatrale, poi l'architetto, infine il consulente d'azienda, e sempre, dietro a ogni mutazione, c'è uno scambio instabile tra il denaro e l'amore degli altri, tra il denaro e le sensazioni, tra le cifre che si contano e il bene che non si dovrebbe mai contare. Credo che il delirio finanziario sia un efficace correlativo del problema della distrazione, e se c'è qualcosa che vale in questo personaggio, sta proprio lì: per quanto fatichiamo ad accettarlo, siamo tutti molto più simili agli operatori di borsa, fissi davanti ai loro numeri in fibrillazione globale, come in una guerra di trincea che trasforma la malinconia in profitto.

Ho lavorato per quattro anni, redatto quattro diverse stesure, perché ho incontrato degli editor (Martina Testa, Christian Raimo e, soprattutto, Nicola Lagioia) che credono che un libro non debba uscire fino a quando non è teso al massimo delle sue possibilità, un ideale insieme classico e radicale. Può essere migliore. Preoccupati solo del testo. Individui del genere possono frustrarti, farsi maledire, rompere a metà le notti in cui la meta sembra irraggiungibile. Ma se in cambio giunge la concentrazione, ne vale la pena. E la concentrazione, alla fine, è arrivata. L'editing ha aiutato l'autore a credere che non c'era nulla di più importante che mettere a fuoco questo personaggio incapace di mettere a fuoco gli altri. L'autore ha passato anni a minacciare il personaggio di dargli fuoco. Infine il personaggio si è salvato, perché ha resistito, dimostrando di avere diritto a esserci. Ecco a cosa serve lavorare così: scrivere fino quasi a perderlo, il libro, e poi vedergli riprendere consistenza, piano piano, come si recupera il rapporto con un amico. Ecco cosa viene da pensare al termine di tutto il processo: dagli altri vorrei essere editato, perché con l'editing si può sempre ricominciare da capo. Perché l'editing è una pratica violenta e diretta verso un bene intangibile e superiore: un percorso esistenziale, qualcosa di sospeso a metà fra il rito, la confessione e l'imperativo reciproco. L'editing, così inteso, è assai più che un problema tecnico, è un modo per diventare bambini migliori.
ricuperatig@gmail.com

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