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Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2011 alle ore 06:40.

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Il pay-off della campagna pubblicitaria a sostegno di Mammut di Antonio Pennacchi, uscito nel 1994 con Donzelli, e ripubblicato dalla Mondadori quest'anno, è indicativo: «Il romanzo che Marchionne dovrebbe leggere... ma anche la Fiom». Con una coincidenza abbastanza sorprendente, sembrerebbe che la letteratura si sia messa a ri-raccontare il lavoro proprio mentre sui temi e i problemi del lavoro si riapre una stagione di discussione pubblica, partita con i referendum di Pomigliano e Mirafiori, con lo scontro tra Fiom e Fiat del 2010.
Pennacchi è un grande narratore operaio, non solo Mammut ma anche i bellissimi racconti di Shaw 150. E – altra coincidenza – a contendergli il premio Strega 2010, vinto con Canale Mussolini, una storia di società operaia sin nel titolo, Acciaio (Rizzoli, pagg. 358, € 18,00), di Silvia Avallone, in cui la complessa dimensione esistenziale dell'attualità irrompe nella frase: «Suo fratello era iscritto alla Fiom, ma votava Berlusconi». L'anno prima era venuto fuori un altro caso con Edoardo Nesi (Storie della mia gente, Bompiani, pagg. 162, € 14,00), autore di un volume un po' romanzo un po' memorialistica, il cui protagonista è un imprenditore tessile di Prato, che ha venduto l'azienda. Ogni giorno legge come in un incubo il grande editorialista che da un quotidiano borghese gli dice: "la globalizzazione è un gioco a somma positiva", mentre lui di quella somma si sente l'addendo con il segno meno. Dice Nesi: «Stiamo vivendo tempi straordinari, ma in realtà solo chi di noi per ragioni personali ha avuto esperienza del mondo produttivo, è in grado di raccontarlo». Condivide il giudizio Giuseppe Berta: «L'industria, il lavoro, le trasformazioni sono solo occasione, tracce, ambientazioni nella letteratura, come nel caso della Avallone, lì Piombino è solo uno sfondo».
Tracce di materiale di fabbrica si trovano anche in un pezzo della new wave pugliese, i riflessi del Siderurgico (con la maiuscola) di Taranto sulle vite famigliari e di strada dei ragazzi di Cosimo Argentina, di Vito Bruno o di Carlo D'Amicis. Mentre Giovanni Pacchiano su Domenica del Sole ha recensito almeno altri due libri interessanti sul lavoro, Le giostre sono per gli scemi di Barbara Di Gregorio (Rizzoli, pagg. 278, € 18,00), molto ben considerata dal capo della narrativa italiana della casa editrice milanese, Michele Rossi, e Veronica Tomassini di Sangue di cane (Laurana, pagg. 232, € 16,00), storia di concorrenza tra lavoratori slavi e locali in Sicilia.
Nel catalogo, il critico Filippo La Porta include anche Giorgio Misini e Paolo Nori, e spiega: «Anche negli anni 60 ci fu una discussione su letteratura e industria. «Menabò» la rivista di Elio Vittorini dedicò un numero monografico al tema. Però io credo che il problema sia invece quello di trovare una lingua, come spiegava anche Volponi. Una realtà in movimento ha bisogno di una lingua in movimento. Da questo punto di vista gli scrittori italiani che negli ultimi anni hanno affrontato il mondo della produzione, mi sembrano troppo levigati nel linguaggio. L'unico che ha saputo raccontare un pezzo di mondo reale con una lingua vera è Walter Siti».
Il catalogo di questo verismo della produzione, sta dentro una tradizione di letteratura operaia che negli ultimi anni era rivissuto in un libro di grande successo com'era stata La dismissione di Ermanno Rea e che va da La chiave a stella di Primo Levi a Donnaruma all'assalto di Ottiero Ottieri, e poi Giovanni Arpino e ovviamente Paolo Volponi, passando per esperienze più prossime alla memorialistica come il Quando torni di Alberto Papuzzi, o un recente e molto aneddotico piccolo libro di un ex manager Fiat, Riccardo Ruggeri, che racconta la sua traiettoria di torinese in ascensore sociale in Una storia operaia.
Uno degli aspetti più interessanti della questione, è cercare di capire se esiste un flusso costante tra la vita del paese, la vicenda politica, il discorso pubblico, quella che in senso largo si chiama realtà e la letteratura. C'è racconto su Berlusconi? Sulla crisi della sinistra? Sull'economia finanziaria e quel nucleo sociale di borghesia trainante fatto di venditori di titoli e di banchieri quarantenni? Lo abbiamo chiesto a Marino Biondi, professore di storia della critica all'Università di Firenze, che si rivelò agli appassionati del genere con un gioiello di analisi psicosociologica, un pamphlet su Gianni Agnelli. Dice: «Se si vanno ad analizzare le tendenze c'è una letteratura narrativa neo-verista, basti pensare a Gomorra. Direi che è una letteratura quasi più vera del vero, questo vale soprattutto per gli scrittori del Mezzogiorno. D'altro canto, questa spinta al vero spinge a trasformare la dimensione di giornalista in quella di scrittore, pensiamo alla coppia Rizzo-Stella: sono loro oggi i veri narratori di realtà. Ciò detto, ci sono due problemi aperti e che riguardano lo scrittore tradizionale. Il primo è che la formazione personale dei nostri scrittori è umanistico-piccoloborghese, con una conseguenza: poca unitarietà di sguardo, è come se ciascuno riuscisse a comprendere la realtà per il pezzo che gli compete, per questo ci manca una visione interclassista e balzacchiana. Il secondo problema è la distanza da quello che guardiamo: non sempre è possibile raccontare in tempo reale quello che accade intorno a noi».
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