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Questo articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2011 alle ore 18:23.

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Beckett, padre elettivoBeckett, padre elettivo

Per il suo settantesimo compleanno, due anni orsono, il mondo aveva celebrato il drammaturgo Israel Horovitz rappresentando un po' ovunque le sue pièces, dall'Argentina alla Russia, all'Europa, fino paesi dell'Africa nera, come Ghana e Nigeria. Un tributo globale che testimonia l'universalità della sua opera. «Cerco solo di scrivere quanto più seriamente posso e in maniera veritiera sull'uomo – si schermisce il drammaturgo –. Io penso che il genere umano sia molto simile in qualunque parte del pianeta viva. Se strutturi una sceneggiatura con un particolare che tocchi il cuore della gente e una manciata di lacrime e risate, ecco che l'universalità della trama è fatta». La manciata di Horovitz è senza dubbio attraente visto che il suo «Line» continua a essere rappresentato nel mondo a distanza di quasi quarant'anni e in questo momento anche a Parma al Teatro due.

«Line è semplicemente divertente e poco costoso da produrre sul palcoscenico», minimizza Horovitz. Line è un dramma dell'assurdo, in cui cinque persone comuni aspettano in fila ciascuna un evento. Una struttura che ha somiglianze con i drammi di Samuel Beckett, di cui Horovitz era caro amico. «Ho sempre amato le opere di Beckett, ma su di me, più che i suoi lavori ha avuto grande influenza l'uomo. Incontrai Samuel alla fine degli anni Sessanta a Parigi; all'epoca avevo 27 anni. Beckett stesso chiese all'attrice Eleanore Hirt di combinare l'incontro. Conobbi Hirt al Festival dei due mondi di Spoleto, dove ero stato invitato e dove l'attrice aveva recitato alcuni monologhi di Beckett, Ionesco e Giradoux. Stavo parlando del più e del meno quando a un tratto la Hirt con la sua voce calma e un po' triste mi chiese quasi con un sussurro: "Vuoi incontrare Samuel Beckett? Perché lui vorrebbe conoscerti…». Non ero sicuro di aver capito bene la domanda, il cuore mi partì in gola e quando riuscii a calmarmi dissi: «Sì, sì. Mi piacerebbe tanto incontrarlo. Grazie…». L'attrice mi diede istruzioni precise: l'incontro sarebbe avvenuto alla Closerie des Lilas, avevo 30 minuti esatti a disposizione, dove avrei potuto chiedergli tutto, tranne come lavorava. Quando mi presentai Beckett esordì: «Preferisco Rats». Si riferiva a uno dei miei primi scritti pubblicati in America in una collezione di mie opere. Aveva letto tutto il volume, riga per riga e aveva emesso la sua sentenza. Ero piuttosto imbarazzato e mi sentivo in colpa che Beckett avesse perso del tempo prezioso della sua vita a leggere le mie sceneggiature. Fu questo un sentimento che non riuscii mai levarmi del tutto nella mia ultra decennale amicizia con lui. Alla Closerie des Lilas passammo assieme quasi tre ore. Alla fine dell'incontro io chiesi al maestro se potevamo diventare amici. «Oh – rispose lui-. Ma siamo già amici».

I ricordi più vividi che ho di Beckett però non riguardano l'incredibile scrittore, ma l'incredibile amico. All'inizio ero attratto da lui per via delle sue opere, ma presto egli divenne per me uno dei pochi uomini a cui scelsi di restare faticosamente vicino, servendolo come un padre. Noi abbiamo padri biologici e padri elettivi; Beckett fu chiaramente un padre elettivo per me. Mi provò con la sua esistenza che un grande artista può avere un'integrità granitica. Era un uomo raro».

Gli spettacoli di Horovitz, oltre che a Parma, sono ora a Milano. Al teatro Elfo Puccini va in scena la "Trilogia" che comprende: «L'indiano vuole il Bronx», per la regia di Luke Leonard fino al 20, «Beirut Rocks» e «Effetto Muro» per le regie di Hyunjung Lee e Andrea Paciotto dal 22 al 27 marzo.
Questa sera poi c'è un appuntamento importante per i cinefili a Milano. Alla cineteca Oberdan verrà proiettato alle 20 «Fragole e Sangue» di Stuart Hagmann, che ottenne il premio giuria festival di Cannes 1970, e a seguire (alle 22.30 circa) ci sarà un incontro con Israel Horovitz e la Compagnia Horovitz-Paciotto.

Di quella pellicola Horovitz scrisse la sceneggiatura. Un mestiere sicuramente diverso da quello dell'autore teatrale… «Soldi e sofferenza, queste sono le differenze più rilevanti. Scherzo, ma non troppo. Quando scrivo una sceneggiatura, sono abituato a vederla recitata piuttosto presto, a pochi mesi dalla fine della stesura. I film invece prendono anni e anni della tua vita. Quando scrissi Sunshine, diretto da István Szabó con Ralph Fiennes, il mio agente mi rassicurò: «In sei mesi è fatto. Bè, ci vollero tre anni. Io amo quella pellicola, ma mi rubò tre anni di vita…. Potevo scrivere altri tre drammi in quell'arco di tempo. E poi, a dire la verità, una sceneggiatura è molto più potente in teatro che in un film. Ora se devo scrivere per il cinema preferisco adattare sceneggiature che ho già realizzato per il teatro».

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