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Questo articolo è stato pubblicato il 26 marzo 2011 alle ore 12:50.

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Settant'anni fa, il 13 gennaio 1941, moriva a Zurigo all'età di 58 anni James Joyce, uno dei massimi scrittori del Novecento, autore dell'Ulisse, la nuova Bibbia della sperimentazione modernista. Per la seconda volta nella sua vita si era ritirato in Svizzera per sfuggire alle guerre mondiali, capaci di devastare quell'Europa che per lui era sempre stata una patria comune della letteratura. In Svizzera era giunto nel 1939 proveniente da Parigi, la città che lo aveva accolto a partire dal 1920, quando aveva lasciato Trieste dopo un soggiorno di undici anni. Soggiorno che aveva fatto di lui un vero triestino, perfetto conoscitore, oltre che di innumerevoli lingue, del dialetto locale, quello più stretto del Borgo di San Giacomo dove, in via Bramante 4, aveva abitato con la famiglia dal 1913 alla metà del 1915.

Le città fondamentali del grande scrittore irlandese furono Dublino, dove nacque il 2 febbraio 1882, sempre al centro dei suoi libri specie dopo l'esilio volontario del 1904, Trieste, dove visse dal 1904 (ottobre) al 1920 con alcuni intervalli, e Parigi, dove finì l'Ulisse e scrisse «La veglia di Finnegan». Oltre ovviamente a Zurigo, dove è attualmente sepolto. Di Dublino, Parigi e Zurigo si è sempre saputo molto, specie dopo l'uscita della monumentale biografia di Richard Ellmann negli anni 50. Ma di Trieste assai meno. Lo stesso Ellmann aveva fornito, sul periodo trascorso nella città adriatica, poche notizie, dedotte durante una breve visita di tre mesi usufruendo con troppa benevolenza dei commenti del fratello di Joyce, Stanislaus, anch'egli emigrato da Dublino nel 1907 e morto a Trieste nel 1955 dopo una carriera come insegnante di lingua inglese presso la locale università. Secondo Stanislaus Trieste era stata ininfluente sulla produzione letteraria del fratello, anzi era stata addirittura matrigna nei suoi confronti, tant'è che una volta si era lasciato scappare che in quel posto «si era mangiato il fegato».

Ma questa interpretazione si è rivelata assai riduttiva, specie negli ultimi quindici anni, dando spazio a una importante e fondamentale rilettura dei suoi rapporti con la cultura mitteleuropea di Trieste. Una città il cui multilinguismo di fondo ha costituito uno straordinario territorio fertilizzante per la sua formazione letteraria e immaginifica. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che nella città adriatica Joyce terminò Gente di Dublino, scrisse Un ritratto dell'artista da giovane (Dedalus), il dramma Esuli, il poemetto in prosa Giacomo Joyce (l'unica sua opera interamente ambientata a Trieste), i primi tre episodi dell'Ulisse (fino al 1915, anno della sua partenza per Zurigo) e gli episodi XIII e XIV (dopo il rientro dalla Svizzera nel 1919 a guerra finita). E infatti la riscoperta della fondamentale importanza della cultura triestina nella sua crescita di scrittore ha costituito, a partire dal 1995, un nuovo capitolo degli studi joyciani. In quell'anno, per l'appunto, ha iniziato la sua attività il Laboratorio Joyce dell'Università di Trieste, teso alla totale revisione degli anni trascorsi sull'Adriatico dallo scrittore. Un nucleo che avrebbe prodotto la nuova mappatura dei luoghi joyciani, rivalutati dal un corposo volume-guida bilingue italiano e inglese (si veda Renzo S. Crivelli, James Joyce: Itinerari triestini/Triestine Itineraries, Mgspress, Trieste, 1a ed. 1995, 2a ed. 2000, 3a ed. 2008), e segnalati, come in un eccezionale museo all'aperto, da ben 45 targhe apposte nelle vie cittadine in grado di formare un percorso biografico essenziale (tutti i luoghi per lui rilevanti, le case, le osterie, eccetera).

Da quel momento, anche con la nascita nel 1996 della Trieste Joyce School, giunta quest'anno alla sua quindicesima edizione, che ha portato nella città adriatica oltre 1.500 studenti provenienti da ogni parte del mondo e più di cento studiosi (si potrebbe dire tutti quelli più quotati sul "mercato globale" joyciano), è iniziata una colossale rilettura degli influssi triestini sull'autore dell'Ulisse. Rilettura che ha portato a una vasta fioritura di studi (basti citare Gli anni di Bloom di John McCourt, uscito nella versione italiana di Mondadori nel 2005, Fogli triestini. Giacomo Joyce di Lia Guerra (uscito nella collana Joyciana dell'editore Pacini, Pisa) oppure i saggi di Rosa Maria Bollettieri Bosinelli, Franca Ruggieri, Laura Pelaschiar, Elisabetta d'Erme, Enrico Terrinoni, Erik Schneider). Per non parlare degli atti del Simposio internazionale della International James Joyce Foundation tenutosi a Trieste nel 2002, curati da Geert Leernout, Sebastian Knowles e John McCourt, usciti nel 2007 sotto l'intrigante titolo Joyce in Trieste: an Album of Risky Readings, dei numeri monografici del prestigioso «James Joyce Quarterly».

Tutto ciò per riconoscere l'importanza del fortunato incontro tra Joyce e una città che era davvero congeniale alla sua visione del mondo (se «ci si era mangiato il fegato» aveva anche scritto di «averla nell'anima» in una lettera a Nora del 1909). Una città che, ancorché tardivamente, lo ha celebrato nel centenario del suo arrivo con una memorabile rievocazione che ha fermato il centro per alcune ore mentre due attori che impersonavano la giovane coppia seguiti da 40 comparse in costume del Teatro Stabile di Trieste sono scesi da un treno storico alla Stazione e hanno inscenato episodi relativi alle prime ore del suo soggiorno (come è noto, lo scrittore, coinvolto in una rissa suo malgrado, fu messo in guardina). Celebrazioni poi documentate da un volumetto contenente un cd di Rai Educational inviato a 700 licei italiani (Renzo S. Crivelli, James Joyce: Scene di un arrivo, Mgspress, Trieste 2008).

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