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Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2011 alle ore 08:23.

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«Dieci anni fa al suo posto c'era soltanto una duna. E adesso come si è ingrandita Tel Aviv. C'è un popolo che aspetta questa città da diciannove secoli! Gli ebrei adesso hanno una capitale! È lì, davanti a me: Israele è resuscitato».
Dopo aver a lungo vagato nell'Est e in Palestina per documentare le condizioni degli ebrei in un'Europa dove l'antisemitismo ricominciava a prendere pericolosa quota, nel 1929 il giornalista francese Albert Londres giunse a Tel Aviv. Il suo entusiasmo sfiorava quasi l'incredulità: le dune di sabbia dell'araba Jaffa si erano trasformate nella prospettiva di una città giardino affacciata sul mare, un desolato deserto nella «collina della primavera» (questo significa in ebraico Tel Aviv).
Nel 2003 l'Unesco ha inserito la «città bianca» nella lista del patrimonio dell'Umanità riconoscendo lo straordinario valore dei suoi 300 edifici moderni, forse la più alta concentrazione urbana di architetture in stile razionalista. Come sottolinea Luca Zevi nell'introduzione alla ricerca di Gianluigi Freda su Tel Aviv, questa realtà urbana merita di essere sottratta alla distrazione di cui gli israeliani stessi l'hanno fatta oggetto. Catalogare e analizzare la successione di case private, di ville, di condominii, di cinema, alberghi e luoghi pubblici è l'unico strumento per riconsiderare i profili di una bellezza spesso appesantita, se non alterata, dal tempo e da usi distorti, e ripensare le basi di uno sviluppo della città che tenga conto delle esperienze del passato resistendo alla sconsiderata riproposizione di modelli di crescita che si sono rivelati altrove clamorosamente fallimentari.
L'avventura di Tel Aviv nella storia dell'urbanistica occidentale del XX secolo è infatti singolare. Qualcuno ha ricordato come in fondo, insieme a Brasilia, la città palestinese è l'unica città di fondazione novecentesca, ad esclusione, naturalmente, di quelle – a una scala minore – promosse in Italia dal fascismo con la bonifica delle paludi. Brasilia, però, e ancor di più Latina o Sabaudia, sorsero con atto d'imperio, letteralmente calate dall'alto. Tel Aviv, invece, sorse dal basso. Il 1° aprile 1909, sessanta famiglie riunite sulla spiaggia celebrarono l'atto fondativo della nuova città, estraendo a sorte il proprio lotto di terra. Doveva essere la realizzazione della profezia di socialista e democratica di Theodor Herzl, tesa, come scrive Freda «dichiarare al mondo che lo spazio dell'ebreo non è più l'esilio. E che l'ebreo si è spogliato dell'abito nero per costruire una nuova identità di uomo moderno».
Chi venne chiamato a dare un volto a questo sogno? I nomi sono tanti e tutti di talento, molti vennero da atelier di grandi maestri come Le Corbusier o dalle aule della scuola di Gropius o dal Bauhaus di Dessau.
Adattandosi al clima locale, le forme spigolose dell'estetica dell'«angolo retto» mutarono: si contorsero sotto il sole, si accartocciarono in curve sinuose come corrose dalla salsedine, si dotarono di ombre profonde, si colorarono di bianca corteccia per prendere il massimo ristoro dei venti. Attecchendo a impreviste latitudini, lo «stile moderno» rivelò la sua flessibilità. Anticipando il «razionalismo tropicale» brasiliano, il «razionalismo mediterraneo» di Tel Aviv smontò quella rigidità a cui l'aveva inchiodato lo stereotipo del moderno.
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la collina della primavera. l'architettura moderna di tel aviv Gianluigi Freda Franco Angeli, Milano pagg. 155|€ 19,50

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