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Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2011 alle ore 08:20.

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Jonathan Franzen si piega in avanti, nella sua camicia boschiva, formulando un "mmm" in tono ultrabasso, prima di raccogliere le forze verbali e dare la grande notizia. «Sto lavorando a una serie tv, per quanto possa sembrare strano, e sembra strano soprattutto a me – comunque ci sto lavorando, tra l'altro anche nel ruolo di produttore esecutivo, è una serie che dovrebbe durare quattro anni, tutta basata su Le Correzioni. Abbiamo iniziato un anno e mezzo fa, quando ero finalmente libero dal nuovo romanzo, e non avevo altro da scrivere». Franzen unisce le mani a coppa, prende pause, fa smorfie intollerabilmente espressive, che mi ricordano qualcuno, ma non ricordo esattamente chi. «È un progetto interessante ed è arrivato al momento giusto. Dopo dieci anni sei abbastanza lontano dal libro per poterci ritornare con la giusta freddezza, ma abbastanza vicino da ricordartelo, i passaggi, i personaggi, quello che c'è e soprattutto quello che non c'è. Le mie serie preferite rimangono The Wire e Breaking Bad, ma ce ne sono sicuramente altre che ora non ricordo, queste però mi sembrano su un livello più alto». Ha un'aria seria, tutti i muscoli facciali congiurano per produrre quest'effetto-responsabilità, e mentre lo riguardo nel filmato quicktime fatto con l'iPhone appoggiato al bicchiere d'acqua, sul tavolino di un bar, la sua faccia un po' esagonale, i famosi occhiali che un fan gli ha rubato durante il tour promozionale in Inghilterra, continuo a pensare che quegli occhi che strizzano puntando altrove, quegli zigomi esercitati nel tentativo di trovare concentrazione e dire una cosa giusta, precisa, adatta, mi fanno venire in mente qualcos'altro, che ho visto, e mi aveva impressionato, e ora non rammento più. Ma so che c'entra. «È strano tornare sui personaggi di un romanzo che hai pubblicato tanto tempo fa, esplorare in modo diverso certe dinamiche e certe motivazioni. Chiedersi, in questo caso, com'era Chip a diciassette anni?».
Contano solo due cose, quando si tratta di scrittori – l'osservazione spietata e la curiosità tecnica. Contano solo queste due cose, quando si tratta di seguire qua e là Jonathan Franzen, l'acclamato, premiato, idolatrato autore de Le Correzioni e di Libertà, il grande romanziere americano, seguito dalle élites critiche e dai lettori schietti e franchi, inventore di metafore formidabili che si traducono in azioni e personaggi più che umani, presenti, interrogativi, dolenti, persistenti.
«Non credo che le serie tv abbiano ovviamente preso il posto del romanzo, le ritengo piuttosto un sottogenere della forma-romanzo, ecco. Quello che stanno rimpiazzando è il bisogno che veniva soddisfatto da un certo tipo di realismo da Diciannovesimo secolo. Quando leggi Dickens ottieni gli stessi effetti narrativi che ti danno le serie televisive, ma senza quel gioco di cambi di prospettiva e di giochi verbali sull'interiorità che solo il romanzo moderno può generare. Se si traduce l'esperienza – Dickens nell'esperienza di fruizione delle serie-tv –, si perde poco. Non faranno mai una serie da Proust, perché si tratta di qualcosa di puramente letterario. Potrà puntare su un aspetto dell'opera di Proust, non so, quello sociale, per esempio, ma perderebbe tutti gli altri, che sono con ogni evidenza centrali. Il problema è proprio nel portare in televisione l'esperienza romanzesca del tempo, che si avvale di mezzi intraducibili. Ecco, il modo in cui un romanzo moderno fa scivolare i punti di vista di una narrazione è assolutamente non-riproducibile in una serie. Ciò che accade con naturalezza in un solo paragrafo, in un romanzo, richiederebbe sforzi enormi in un racconto tv. Le serie hanno principalmente un mezzo per convogliare il mondo interiore dei personaggi: le espressioni facciali. Ed è così poco, se lo compariamo con la ricchezza di possibilità che esiste nella costruzione retorica romanzesca».
Seguendo le diverse tappe di un giro che l'editore italiano di Franzen ha voluto degno di una vera stella si potrebbe raccontare dell'espressione stanca dell'autore, ascoltando l'ennesima domanda sui bombardamenti libici, o sui massimi sistemi dei rapporti Usa-Europa, o sulla lettura digitale. Si potrebbe raccontare dell'impeccabile professionalità nel rispondere comunque, a chiunque. Si potrebbe persino raccontare dell'improvvisa comparsa di un lampo d'interesse, nel mezzo dell'ennesima occasione sociale, quando il discorso tocca la nuova scena intellettuale moscovita: il romanziere è un animale ansioso di sapere tutto ciò che può servire a un personaggio futuro. Ma non è meglio sapere del processo di editing del suo romanzo? «Ho fatto una sola stesura, e il rapporto con l'editor è stato soprattutto all'inizio, quando ho raccontato a Jonathan Galassi l'idea base del libro, e lui si è convinto, e mi ha detto ok, ci mettiamo dei soldi, comincia a scrivere». Le facce continuano. I "tsk" collocati fra un mezzo sorriso e una torsione delle labbra. Quel modo di congetturare col volto, insieme familiare e nebuloso. Così si passa il tempo a guardare il corpo dell'autore, con un retropensiero al corpo della sua opera, non solo i romanzi ma anche i pezzi d'occasione, capaci di sintesi emotive e di ragionamenti circolari, pacati, acutissimi sugli argomenti più diversi. Uno di questi è David Foster Wallace, al centro di un testo che sta ultimando proprio ora, per il «New Yorker», e che farà perno su un'esperienza estrema vissuta su un'isola, nella più completa distanza da tutto. Scatta qualcosa, quando gli domando come sta David Means, suo grande amico e uno dei migliori autori di racconti in lingua inglese. «Sono sempre più legato a David, specie da quando ho perso l'altro David». Il modo in cui lo dice, una combinazione di imbarazzo e dolore, scioglie la memoria: una vecchia intervista di Foster Wallace, concessa alla tedesca ZDF, la si trova su Youtube: inusuali capelli corti, e quelle miracolose formule di muscoli facciali, tese, teatrali e insieme così sincere. Ecco cosa si impara seguendo il grande romanziere americano: i morti veramente amati continuano a vivere sui nostri zigomi.

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