Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2011 alle ore 08:22.

My24
Enzo Bianchi, fondatore e attuale priore della Comunità monastica di Bose (Ansa)Enzo Bianchi, fondatore e attuale priore della Comunità monastica di Bose (Ansa)

Quando ha cominciato la vita a Bose, nel 1965, l'anno della fine del Concilio Vaticano II, era solo. Studente di economia e commercio all'Università di Torino, aveva formato un gruppo di preghiera «ecumenico, prima ancora del concilio» con altri giovani cattolici, valdesi, ortodossi. «Sentivamo il bisogno di far coincidere la spiritualità cristiana e l'umanità». La svolta avviene nel 1965 quando trascorre tre mesi in Francia a fianco dell'Abbé Pierre.

«Vivevamo in una catapecchia vicino al fiume, alla periferia di Rouen: io, l'Abbé Pierre, Dominique, un fratello laico, assieme a clochard, ex legionari, ex carcerati. Svuotavamo cantine, raccoglievamo stracci e li vendevamo». Tornato a Torino non era più lo stesso. «Volevo continuare a vivere così: una vita cristiana radicale». All'inizio erano in quattro, ma rimase subito solo: uno dei compagni perse la fede, due ragazze decisero di sposarsi. «Mio padre diceva che ero pazzo». Pazzo di Dio.

Nella prima casupola di Bose non c'era l'elettricità, né riscaldamento o acqua calda. Solo una stufa a legna durante i lunghi inverni, l'orto, le traduzioni dal francese per mantenersi e la vita monastica, in solitudine. Per tre anni. «In quel periodo ho toccato con mano quanto sia difficile l'arte di abitare con se stessi. La mia vita era come è adesso, con la liturgia delle ore, il silenzio e il lavoro. Durante l'inverno restavo lunghi mesi da solo senza vedere nessuno. Il sabato e la domenica, nella bella stagione, qualcuno veniva su a trovarmi. Le giornate erano lunghe ma piene. Avevo trovato una ragione per spendere la vita. Non desideravo altro... Quando ci ripenso ho nostalgia di quel tempo».

L'esperienza di Bose, per niente mondana, ha un qualche successo, lo dimostrano le vendite del suo libro e le 18mila persone che ogni anno vengono a visitare questo luogo sperduto nella campagna piemontese. È una storia vera, di identità, di cristianesimo vissuto. «Tanta gente arriva qui, anche non credenti. Facciamo una vita semplice. Io ho sempre cercato di creare rapporti veri, di comunicazione sincera».

Rimpianti? No, non ci sono, ricordi piuttosto. «Adesso, con l'età che avanza, si comincia a guardare indietro, sempre più spesso. Quando sono nella solitudine della mia cella, alla sera, ripenso alle persone fondamentali nella mia vita: l'Abbé Pierre, Roger Schutz, Atenagora, ma anche ad alcune persone semplici che sono state importanti nel mio cammino». Nel libro racconta la storia di Teresina del Muchèt. Una donna che viveva sola sul pianoro ai bordi del paese natìo, con la compagnia dei suoi animali «ed emanava un odore acre, un misto di stalla, di pecora, di sudore». Parlava poco Teresina ma quando lo faceva era piena di sapienza, «poche frasi che coglievano sempre nel segno».

Tra le pagine scorre anche la storia di Cocco ed Etta, la postina e la maestra del paese. Due donne non sposate, che vivevano insieme dandosi del lei, e che dopo la morte della madre lo hanno cresciuto alla vita, trasmettendogli valori e tolleranza. «Ho avuto la grazia di trovare chi credeva in me. Avere qualcuno che crede in noi è decisivo affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare senso nella vita».

Se oggi dovesse lasciare questa terra e le si chiedesse una parola, l'ultima, da lasciare ai suoi, un testamento racchiuso in una parola, cosa direbbe?: «Direi questo: ascoltate. Imparate ad ascoltare. Per me è la cosa più importante. L'unica cosa che vorrei che si dicesse di me quando non ci sarò più è: "Era un uomo che ascoltava"».

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi