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Questo articolo è stato pubblicato il 09 aprile 2011 alle ore 15:11.

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«Blowin’ in the wind» e le altre. Vota la tua preferita nel canzoniere dylaniano. Bob Dylan durante uno dei suoi concerti in Cina (Reuters)«Blowin’ in the wind» e le altre. Vota la tua preferita nel canzoniere dylaniano. Bob Dylan durante uno dei suoi concerti in Cina (Reuters)

A ciascuno la sua. E non potrebbe essere altrimenti: quando un artista arriva a esercitare sulla vita dei suoi contemporanei un peso senza precedenti, quando il messaggio di un’opera penetra a fondo le masse, quando non ha più senso distinguere tra cultura «alta» e «bassa», allora va a finire che ogni «pezzo» della produzione di questo stesso artista si leghi, per un motivo o per un altro, alla vita di ognuno di noi.

Vota la tua canzone preferita

Accade per Van Gogh (c’è chi è più legato ai «Girasoli» e chi alla «Notte stellata»), per Dostoevskij (sarà meglio «L’idiota», «I fratelli Karamazov» o «Delitto e castigo»?) e pure per Bob Dylan: quale sarà il brano del Menestrello di Duluth cui siamo più affezionati? Quale quello che si avvicina di più all’idea che ci siamo fatti della vita? Quale canzone ascolteremmo, tra tutte, se fossimo proprio obbligati a sceglierne una sola? Chiediamocelo e chiedetevelo, in questo sondaggio che si avvicina molto a un gioco. Il proverbiale «imbarazzo della scelta» di fronte a tanto ben di Dio è davvero altissimo.

Gli «inni»

In cima alla lista ci sono senza dubbio i brani che, negli anni Sessanta e non solo, si sono trasformati in veri e propri inni: il più antico, a scorrere indietro il canzoniere dylaniano, è «Blowin’ in the wind», struggente nella sua semplicità, ingenuo (nel senso di nobile) nella purezza cristallina del suo messaggio pacifista, ripreso da migliaia di artisti più o meno famosi in giro per il mondo (dagli epigoni folk Peter, Paul and Mary a Stevie Wonder passando per un arrabbiatissimo Neil Young in versione elettrica). Chi appartiene alla generazione dei baby boomers ricorderà forse con un po’ di commozione «The times they are a-changin’»: nessun pezzo si porta dentro tanto entusiasmo e una così alta consapevolezza della possibilità (tradita) di cambiare il mondo. I più giovani la conoscono, invece, per la memorabile sequenza iniziale del film tratto da «Watchmen». La svolta elettrica di Dylan nel ’65 non piacque a tutti ma col senno di poi «Like a rolling stone», il brano che apriva l’album «Higway 61 revisited», è uno dei momenti più alti della musica del Ventesimo secolo. L’intera parabola di una generazione in sei minuti e tredici secondi.

Le «arrabbiate»

Altre canzoni di Dylan ci restano attaccate addosso per la carica di rabbia contestatrice che si portano dentro. È così per gli spettri da guerra atomica di «A hard rain’s gonna fall», scritta all’indomani della crisi della Baia dei Porci, o per l’invettiva politica di «It’s all right, ma’ I’m only bleeding» («Va tutto bene, mamma sto solo sanguinando») che anni più tardi diventerà il commento musicale perfetto allo scandalo Watergate che travolgerà il presidente Richard Nixon. Trabocca di rabbia anche «Hurricane», pubblicata nel ’76 a sostegno della causa di Rubin Carter, il pugile afroamericano accusato ingiustamente di omicidio.

Le ballate

Ogni artista folk che si rispetti ha un numero imponente di «ballad» in repertorio. Il Menestrello di Duluth, ovviamente, non fa eccezione, con la differenza che le sue ballate in quanto a popolarità sono andate ben oltre i confini di audience della musica tradizionale. Indietro nel repertorio dylaniano, fanno comunque bella mostra di sé gemme quali «Don’t think twice, It’s all right» e «It ain’t me, babe», due memorabili «serenate all’incontrario» (del tipo: lui che dice a lei che non è cosa). Anche «It’s all over now, baby blue» merita di entrare nel novero delle più belle di sempre. Negli anni Settanta inoltrati, poi, il vecchio leone dimostra a tutti che è ancora in grandissima forma con la struggente «Tangled up in blue», triste epigrafe su un amore finito. Il suo.

Le più reinterpretate

Fanno storia a sé i brani celebri più per le cover eseguite da altri artisti che per l’originale dylaniano. Basti pensare a «Knockin’ on heaven’s door», colonna sonora del film di Sam Peckinpah «Pat Garrett e Billy the Kid» nel quale lo stesso Dylan appariva in veste d’attore: un brano tanto noto e così reinterpretato (tra gli altri da Eric Clapton e i Guns ‘n’ Roses) da suonare scontato persino nel repertorio dell’ultima cover band di provincia. Jimi Hendrix trasformerà con la sua versione «All along the watchtower» in un pezzo imprescindibile di storia del rock mentre i Byrds, a partire dal debutto di «Mr. Tambourine man», diventeranno una delle band più affezionate al corpus del Maestro. A The Band, il gruppo di Robbie Robertson che lo accompagnava in tour tra i Sessanta e i Settanta, Dylan stesso affidava inediti a ripetizione. E in alcuni casi – vedi alla voce «I shall be released» - ci scappava pure il capolavoro.

Cover «all’italiana»

Il nostro Paese risente eccome dell’influenza del Maestro: «I want you», in mano ai Nomadi, diventa «Ti voglio», Francesco De Gregori traduce quasi alla lettera il testo di «If you see her, say hello» in «Non dirle che non è così» e il sommo Fabrizio De André paga il suo tributo in «Via della povertà», ossia «Desolation row», e «Avventura a Durango» («Romance in Durango».

Ma fermiamoci qua. La lista è già lunga, per quanto siano stati omessi numerosissimi titoli che pure meritavano. A voi il compito di integrarla.

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