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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2011 alle ore 22:06.

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Il pianista McCoy Tyner – nativo di Philadelphia, Pennsylvania, 73 anni a dicembre – non ha rinunciato al suo annuale viaggio in Italia. E' arrivato in trio con Gerald Cannon contrabbasso, Francisco Mela batteria e con il consueto (e opportuno) supporto dell'eccellente sassofonista alto e soprano Gary Bartz. Ha fatto un'unica tappa di tre sere al club Blue Note di Milano con un solo set per sera. Il suo nome ha richiamato un folto pubblico di cultori del jazz in età e un notevole numero di giornalisti specializzati più curiosi del solito.

Per chi non lo sapesse, oggi Tyner è l'unico superstite del mitico quartetto che il sassofonista John Coltrane diresse nei primi anni sessanta, appunto con Tyner pianoforte e con Jimmy Garrison contrabbasso ed Elvin Jones batteria. Scioltosi il quartetto, Tyner si mise in proprio e si trasformò in un musicista giramondo che portò dovunque il verbo postcoltraniano, perlopiù in trio ma anche con altre formazioni imperniate sulla potenza tecnica ed espressiva del suo stile pianistico. Ne fu quasi un simbolo l'aspetto dell'uomo, tarchiato e vigoroso fino a quando, quattro anni fa, non lo tradì la salute.

Riuscì a sospendere non per molto la sua intensa attività concertistica e discografica e poi a rimettersi in sella, ma la critica più attenta sentenziò che il grande Tyner non era più lo stesso: per ciò il nuovo verdetto del Blue Note era così atteso. Per chi lo conosca bene e da tempo, il Tyner attuale preoccupa già dall'ingresso in scena, smagrito com'è e malfermo nel passo. Suona meno di una volta, nel senso che lascia maggiore spazio ai comprimari, specie al provvidenziale Bartz, autore di brillanti assoli. La sua mano sinistra è uguale al passato, mentre la destra, che negli anni d'oro sapeva inventare meravigliosi blocchi di accordi e volate sulla tastiera da fare invidia al sommo Art Tatum, sembra ancora la stessa al comune ascoltatore perché Tyner ricorre alle risorse del mestiere, tali da permettergli il dolus bonus.

Ad esempio, tiene quasi sempre premuto il pedale di risonanza, per cui la potenza del suono appare pressoché inalterata, e però poco nitida. Nel concerto (70 minuti, non uno di più e niente bis) si riconoscono brani sovente proposti da Tyner in altre occasioni come The Greeting, Sama Layuca, Afro Blues. Gli applausi sono sinceri e clamorosi, la musica è pregevole, ma Tyner prima del guaio era un'altra cosa. Al punto che per i giovani è d'obbligo aggiungere qualche nozione storica. I pianisti di jazz e dintorni che oggi vanno per la maggiore – come Vijay Iyer, Brad Mehldau, Stefano Bollani e altri – sono tutti figli di due illustri maestri: di Bill Evans (non di Keith Jarrett, malgrado certe apparenze) per quanto riguarda i pianisti inclini al postimpressionismo, e di McCoy Tyner per i più forti e incisivi.

Tyner dava un'immediata sensazione di vigore e di vitalità, se non altro per il frequente contrasto fra la mano destra che era capace di lunghe e fitte sequenze melodiche create con cura formale superba e nitido fraseggio, e i profondi accordi prodotti dalla sinistra. Quando si esibiva da solo (non spesso, e adesso mai) Tyner doveva lavorare di più sulla sinistra come fattore portante e sulla perfetta indipendenza delle mani, lasciando percepire chiare influenze di Art Tatum. Comunque, se si addizionano tutti questi elementi, si può concludere che sia Tyner il maggiore modello dei pianisti di jazz del nuovo millennio. Evans attiene di più al gioco delle parti, al dialogo fra gli strumenti, all'interplay, mentre Tyner nei suoi gruppi fa prevalere nettamente se stesso. L'altro suo musicista di riferimento, che nel 1960 lo proiettò quasi all'improvviso nell'empireo dei grandi del jazz, fu John Coltrane. Tyner ancora oggi lo cita e lo ricorda per la sua personalità magnetica, come succede a coloro ai quali spetta la qualifica di genio.

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