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Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2011 alle ore 16:21.

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È singolare (o forse no) che mentre le celebrazioni dei 150 anni di Unità d'Italia sono prevalentemente rivolte al passato, mezzo secolo fa si guardasse molto, e con delle buone analisi, anche al futuro. Come si può constatare leggendo gli atti di un convegno organizzato il 2 e 3 dicembre 1961 dal Centro Attività Culturali della Democrazia Cristiana sul tema «Una politica per la ricerca scientifica». La relazione d'apertura, preparata da Giordano Giacomello, allora direttore generale dell'Istituto Superiore di Sanità, e dall'On. Franco Maria Malfatti, rimane esemplare per concretezza e lucidità. Se i futuri tecnici e politici italiani avessero mantenuto quel grado di serietà, probabilmente oggi non saremmo in queste condizioni.

Giacomello e Malfatti analizzavano i dati internazionali sui rapporti tra ricerca scientifica, sviluppo economico e insegnamento superiore, individuando precisamente i limiti del sistema italiano e proponendo una serie di interventi. In primo luogo, il miglioramento dell'istruzione scientifica nelle scuole superiori e una programmazione della ricerca scientifica che tenesse conto dei trend internazionali e del sistema locale. Inoltre, prevedevano che il «miracolo economico italiano» si sarebbe estinto presto, senza un'adeguata politica economica dei brevetti e investimenti dell'ordine di almeno il 2% del Pil, che consentissero di competere che con le crescenti economiche internazionali della conoscenza. Al convegno parteciparono i massimi esponenti della ricerca scientifica italiana, pubblica e industriali del tempo, tra cui Edoardo Amaldi, Felice Ippolito, Vincenzo Caglioti, Adriano Buzzati Traverso e Gino Martinoli. Tutti elogiarono l'analisi di Giacomello e Malfatti, integrandola con osservazioni pertinenti.

Se cinquant'anni fa le idee erano così chiare, perché le cose sono poi andate male? Come mai sono accaduti gli episodi raccontati da Marco Pivato, che hanno stroncato sul nascere le opportunità per l'Italia di collocarsi stabilmente tra i paesi con un'economia davvero basata sulla conoscenza? I quattro casi storici di cui narra Pivato sono noti: la triste parabola dell'Olivetti, seguita alla morte di Adriano Olivetti nel 1960 e di Mario Tchou nel 1961; il fallimento del progetto di modernizzazione della politica economica industriale perseguito coraggiosamente e contro le resistenze di una classe politica e industriale ancora feudale da Enrico Mattei; l'arresto di Felice Ippolito, presidente del Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare nel 1963, che segnava anche l'arresto del programma di ricerca e sviluppo del nucleare in Italia; infine, l'arresto anche di Domenico Marotta, nel 1964, che aveva diretto l'Istituto Superiore di Sanità, facendone uno dei centri di ricerca biomedica più dinamici nel mondo occidentale. Si potrebbe aggiungere, la vicenda che vide fallire il progetto di Adriano Buzzati Traverso – forse il più ambizioso di tutti – di riformare i criteri di formazione e reclutamento dei ricercatori nell'area biomedica di base, per adeguarli a quelli dei paesi scientificamente emergenti.

Pivato non porta dati nuovi, ma aggiorna il dibattito incastonando i racconti con interviste a testimoni ancora in vita, studiosi che si sono occupati delle conseguenze che quelle «occasioni perdute» hanno avuto per il declino dello sviluppo industriale italiano e intellettuali attenti alla storia scientifica, economica e politica recente. Nelle conclusioni propone una lettura pedagogica di quei casi, richiamandone l'attualità al fine di capire come si devono riformare i rapporti tra scienza, politica e società in Italia. Non si può che concordare con l'ultimo auspicio, sperando che la politica si accorga che senza un'adeguata e diffusa istruzione scientifica somministrata alle più giovani generazioni il Paese non ha futuro. Né l'avrà mai.

Ma torniamo alla domanda da un milione di dollari. Al di là del ruolo giocato dai Saragat, dai Valletta, dall'Enel, dalle ripicche politiche tra Dc e Pci, eccetera, si può provare a identificare un fattore che in ultima istanza è all'origine dello "scippo" di cui racconta Pivato, e che ha mantenuto questo paese ai margini della modernità? A mio parere sì. Questo fattore lo hanno denunciato esplicitamente Felice Ippolito e Antonio Ruberti. Nel 1978 Ippolito sosteneva che il problema stava nell'estrazione culturale della classe politica italiana: «politici sono e sono stati molti uomini di cultura, ma in generale di estrazione umanistica. Non abbiamo avuto quasi nessun ministro di formazione tecnica o scientifica nel senso di scienze fisiche o applicate». Scrivendo nel 1998 sul «sistema della ricerca in Italia dopo il 1945», Ruberti affermava che la causa dei ritardi risiedeva in una «radicata e profonda difficoltà a considerare le scienze naturali parte della cultura», ovvero nel «peso che il tipo di formazione e di cultura prevalente nella classe politica ha di fatto esercitato».

Appunto. Se ci troviamo in queste drammatiche condizioni, e non siamo in grado di garantire un futuro ai nostri figli, lo dobbiamo a una cultura umanistica conservatrice e dannosamente pervasiva.

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