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Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2011 alle ore 08:25.

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La filosofia, dicono a volte gli scienziati, arriva a chiudere la stalla quando la pecora è già clonata e alle domande scomode hanno già risposto. Non è vero e lo dimostrerà domani Dale Jamieson nella lezione che terrà alle 17.30 alla Luiss di Roma. Il filosofo americano che dirige il dipartimento di scienze ambientali alla New York University, parteciperà anche al workshop del 27 aprile sull'etica del cambiamento climatico insieme a Gianfranco Pellegrino e Sebastiano Maffettone. Lo hanno invitato per parlare della geoingegneria, come fa dal 2001, ben prima degli scienziati. Ci avevano provato nel 1965. Il presidente Johnson aveva portato al Congresso un rapporto della National Science Foundation che riassumeva i rischi per il Paese delle crescenti emissioni di gas serra. L'anno dopo, gli esperti convocati dal presidente suggerivano di abbassare la temperatura, dovesse mai salire, sparando in atmosfera particelle di solfati che avrebbero ombreggiato la nazione. Non se ne fece niente, era più urgente eliminarle insieme alle malattie polmonari e alle piogge acide che ne conseguivano. La geoingegneria tornò nel cassetto. Però le emissioni aumentavano, le temperature anche, il Pentagono la tirò fuori nel 1996 con un documento intitolato «Impossessarsi del clima»: si trattava di una "tecnologia strategica" che gli Stati Uniti dovevano "dominare". Per esempio potevano «gestire la radiazione solare» lanciando nello spazio migliaia di satelliti a mo' di ombrelloni. I militari consideravano le tecniche di «cattura e rimozione dell'anidride carbonica» poco promettenti, avrebbero richiesto decenni prima di influire sulle temperature.
Il documento era riservato e lo rimase. Nel 2006 Paul Crutzen, premio Nobel 1995 per i lavori di chimica atmosferica, scrisse sulla rivista «Climate Change» che occorrevano esperimenti di geoingegneria in natura in modo da selezionare le tecniche migliori (puntava sui cannoni da solfati) e approntare un "piano B" per mantenere vivibile il pianeta. Sarebbe tornato utile quando, davanti a un crescendo di dissesti e disastri, la comunità politica avrebbe finalmente deciso di agire. Nel 2008, i principali climatologi americani riuniti a Harvard si dichiaravano quasi tutti contrari, ma nel frattempo alcuni scienziati si erano trasformati in imprenditori. Per vendere crediti di carbonio equivalenti alla CO2 che sarebbero riusciti a far catturare dai vegetali e da minuscoli crostacei marini, avevano fondato aziende di riforestazione, tuttora in attività, e altre come la Planktos che doveva "fertilizzare" il plancton con limaglia di ferro e solfati. È fallita dopo aver provato a fertilizzare alcuni chilometri quadrati al largo delle Azzorre e mobilitato gli ambientalisti che in Germania bloccarono per mesi la partenza di una nave di ricerca sulla fertilizzazione nell'oceano Indiano. Nel 2009 la Royal Society pubblicava una serie di raccomandazioni per evitare rivolte contro esperimenti simili (http://royalsociety.org/Geoengineering-the-climate/). C'è stata lo stesso. Al vertice sulla biodiversità nell'ottobre scorso, le Nazioni Unite hanno proclamato una moratoria usando proprio alcuni degli argomenti affinati in venticinque anni da Dale Jamieson, Michael Glantz e altri filosofi. Derivano dal consequenzialismo e dall'utilitarismo familiari ai lettori di One World di Peter Singer (Einaudi) e di Governare l'ambiente di Stefano Nespor (Garzanti). Alla domanda «È giusto modificare volutamente il clima globale?» rispondono di no, tenuto conto dei risultati incerti, dell'impossibilità di consultare tutta l'umanità e di distribuire equamente i benefici attesi e i danni collaterali. Gli scienziati della Royal Society e altri che non rinunciano a cercare soluzioni saranno forse moralmente ingenui, però hanno adottato criteri di «responsabilità scientifica»: gli effetti voluti devono essere rapidi, misurabili e reversibili. Qualcuno progetta navi-robot a energia solare ed eolica: spruzzano una nebbiolina che riflette i raggi del Sole e rinfresca il mare sottostante. L'effetto finisce nel momento in cui un telecomando spegne le pompe. Non rimedia all'acidificazione degli oceani causata dalla CO2, ma sulla terraferma potrebbero sequestrarla alberi artificiali: non perdono le foglie in autunno, in compenso hanno bisogno di parecchia manutenzione.
Progetti di lusso, non soddisfano le esigenze di Jamieson. E nemmeno quelle di Drew Shindell che al Centro Goddard della Nasa costruisce modelli di previsione del clima. Poche settimane fa, alla conferenza mondiale sullo sviluppo di Nairobi partiva da considerazioni etiche per elencare gli interventi realizzabili subito nei Paesi poveri, senza sviluppo industriale né emissioni di CO2, che non ne condividono i vantaggi e sono i più vulnerabili. Pratiche agricole che non producono metano, forni per cucinare senza respirare fuliggine e ingigantire le nubi brune che sostano fra i Tropici, generatori solari, reti di comunicazione, formazione, informazione. Insieme compongono un piano A, con la minuscola, perché costa poco. Ha solo bisogno di un sapere che c'è già e ai Paesi dai quali fuggono gli emigranti serve più delle armi.
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