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Questo articolo è stato pubblicato il 24 aprile 2011 alle ore 08:21.

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La nostra epoca, denuncia James Hillman, è ossessionata dai piaceri della gola. Ma la sua ossessione assomiglia più alle tentazioni combattute dagli eremiti che alle orge dei gourmet.

«Venite a mangiare l'arrosto del re!», diceva Federico II di Prussia. Il re filosofo amava avere molti ospiti ma, se la conversazione era brillante, la mensa risentiva dell'avarizia regale. Era buona, insinuava Voltaire, come poteva esserlo in un Paese in cui non c'è selvaggina, né carne passabile, né polli. Per morire d'indigestione a causa di un monumentale pasticcio d'aquila ai tartufi, il filosofo La Mettrie, membro della sua corte, dovette pranzare da un diplomatico francese.

La sobrietà non esime dalla golosità. Per Stendhal il pasto ideale era: una bistecca e un cosciotto cotti al punto giusto, un frutto, un gelato e un caffè. Ma proclamava: «Gli spinaci e Saint-Simon sono state le mie sole passioni durature».

La tavola può favorire gli incontri, ma anche affondarli. Vigny, devoto ai Borboni, cenava da Luigi Filippo, osservando sospettosamente l'usurpatore. Era una cena intima; Luigi Filippo infatti voleva guadagnarlo alla sua causa. Nel nuovo stile della monarchia borghese i domestici erano senza livrea e i presenti non indossavano l'abito di gala.
Se la regina Maria Amelia era piacevolmente simile a Maria Antonietta, il marito faceva un errore dopo l'altro. Era arrivato in ritardo, si disinteressava della conversazione generale, metteva i gomiti sulla tavola. Dopo aver lungamente girato lo zucchero nel caffè, aveva posato la tazzina senza toccarla, poi aveva inchiodato l'ospite in un angolo, sommergendolo di vane parole.

Congedandosi, Vigny disgustato, decise di ritrarsi dalla sua epoca, per vivere «indipendente, inoffensivo e in disparte».
Un menu modesto può avere maggior successo, ma dipende da chi lo prepara. Quando era particolarmente povera, la principessa di Belgioioso cucinava per gli ospiti un'omelette direttamente nel camino.
La Fayette guardava incantato quella giovane donna snella ed elegante affaccendarsi con la pentola tra le bellissime mani scarne.

Non è sempre consigliabile alternare alle diete un'orgia culinaria. Abitualmente sobrio e astemio, Balzac si concedeva ogni tanto «un po' di gozzoviglia». Allora poteva scolarsi una serie di bottiglie di Vouvray, un bianco fortissimo e mangiare con appetito pantagruelico. Intanto trasformava i cibi in altrettanti romanzi.

L'origine delle bottiglie arretrava nei secoli, il rum usciva da una botte che aveva galleggiato per centoventi anni sul mare: per rompere la crosta di conchiglie c'era voluta un'accetta. Gli amici temevano la terribile purea di cipolle che faceva fabbricare su sua ricetta e apprezzavano le magnifiche pere, che lo scrittore divorava in quantità.

La golosità può provocare vivide emozioni. A Zola tremavano le mani quando portava alla bocca un'ostrica o un frutto di mare freschissimo.
Proust era meno goloso, ma più esigente in fatto di emozioni. Al ristorante, si accontentava di spiluccare i piatti preferiti, dal boeuf à la mode al riso all'imperatrice, candido come gli abiti della moglie di Napoleone III.

Probabilmente, se invece di un'ombra di madeleine ne avesse divorato tutto un vassoio, non avrebbe scoperto la memoria involontaria.
Dumas, come testimoniava la sua pancia, cucinava e scriveva con la stessa facilità anche se in entrambi a volte eccedeva in immaginazione, come quando aveva compilato la ricetta per la zampa d'elefante.
D'altronde, come diceva sempre lui: «L'uomo non vive di quel che mangia, ma di quello che digerisce». Certo, quando non si digerisce, è meglio prenderla con filosofia. «La sera», confessa Kafka, «ero triste perché avevo mangiato delle acciughe. Il mattino il medico mi confortò. Perché essere triste? Dopo tutto ho mangiato le acciughe, ma le acciughe non hanno mangiato me».

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