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Questo articolo è stato pubblicato il 26 aprile 2011 alle ore 16:54.

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Chiamalo se vuoi «slow journalism». Nella foto David Remnick fotografato durante il suo ultimo viaggio in ItaliaChiamalo se vuoi «slow journalism». Nella foto David Remnick fotografato durante il suo ultimo viaggio in Italia

Lavora per una casa editrice, la Condé Nast, che non si fa problemi a chiudere testate, magari storiche, se non sono più profittevoli. E che con altrettanta rapidità sostituisce direttori e art director, anche se famosi, di ottime frequentazioni e pieni di amicizie altolocate. Sempre nel caso in cui le riviste di cui sono responsabili perdano lettori e soldi. Eppure, se chiedete a David Remnick quale sia la formula di successo del «New Yorker», il settimanale che dirige dal 1998, come abbia capito cosa vogliono i lettori e come darglielo, lui risponde che non vorrebbe mai conoscere una simile formula.

Ammesso che esista, precisa. Usando toni pacati e soprattutto la logica, una costante della lunga conversazione a New York. La logica per Remnick non è un grimaldello per contraddire l'interlocutore, ma una dolce, implacabile alleata. «Se qualcuno mi dicesse che sa esattamente cosa vogliono i lettori gli direi di tenersi queste preziose informazioni. Non mi interessano. E poi parlare di lettori, genericamente, ha poco senso. Andrebbero considerati uno per uno... Detto questo, spero che ogni numero del «New Yorker» incontri il favore del maggior numero di lettori possibile. Non perché abbiamo scritto quello che si aspettavano, ma perché li abbiamo sorpresi, appassionati, magari fatti arrabbiare. Più spesso incuriositi, stimolati, divertiti. A volte pubblichiamo pezzi talmente complessi o di argomenti così poco conosciuti o allettanti... so dal principio che li leggeranno in pochi. Gli altri li salteranno a piè pari. O li salteranno e poi magari ci ripenseranno e gli daranno almeno un'occhiata.

Ma forse chi leggerà quegli articoli avrà davvero una nuova visione del problema, forse apriremo qualche finestra nella sua mente, forse addirittura gli cambieremo la vita, nel senso di atteggiamento, di visione». Forse... Forse bisognerebbe rispondergli (non abbiamo osato farlo) che dice così perché lui la formula magica l'ha trovata: il «New Yorker» vende 1.024.882 copie (dati aggiornati al numero del 4 aprile), 992.274 in abbonamento, 32.608 in edicola. Il sito ha 2,5 milioni di visitatori unici al mese e oltre 5mila hanno sottoscritto l'abbonamento che permette l'accesso all'archivio e a molti pezzi di cui i visitatori occasionali hanno solo un assaggio. Negli ultimi cinque anni, mentre la maggior parte della carta stampata perdeva lettori, copie e pubblicità, il «New Yorker» andava in direzione opposta. E persino la versione per iPad ha già vinto numerosi premi. Ma ammettiamo pure che non ci sia alcuna formula segreta.

Sul «New Yorker» appaiono vignette, poesie, racconti brevi, ma anche inchieste, spesso da fronti di guerra. Remnick, classe 1958, ha vinto il Pulitzer nel 1994 per un saggio sul crollo dell'Unione sovietica e nel 2010 ha pubblicato una monumentale biografia di Obama, tradotta in Italia da Feltrinelli. È quanto di più lontano da un fashion addict si possa immaginare, ma per sorprendere i suoi lettori – e forse se stesso – non disdegna di pubblicare ritratti di stilisti. Come li sceglie? «Non certo in base alla pubblicità che comprano sul "New Yorker", se è a questo che pensava. Di recente abbiamo pubblicato un articolo su Louboutin, stilista francese di scarpe molto famoso e di grande successo. Personaggio strano, non esattamente una persona affabile. Che io sappia, non ha mai acquistato uno spazio pubblicitario sulla nostra o su altre riviste. Ma la sua storia ci ha incuriositi e il pezzo avrà sicuramente avuto i suoi lettori. In passato ci siamo occupati di Karl Lagerfeld, che tra l'altro si era molto arrabbiato perché non si era riconosciuto nel ritratto che ne avevamo fatto. Pazienza. A me il pezzo era piaciuto. Qualche tempo fa una nostra giornalista è stata molto tempo in Italia, per un pezzo su Brunello Cucinelli. Avevamo fatto la stessa cosa con Diego Della Valle, in febbraio è uscito un profilo di Tomas Maier, direttore creativo di Bottega Veneta. Anche in questo caso sono state necessarie visite in Veneto, a Milano, allo studio di Maier negli Stati Uniti e moltissimo lavoro di ricerca. Ma è venuto un bel pezzo, che credo abbia incuriosito tutti, anche persone che non conoscono il marchio o il mondo della moda. Forse sono stati proprio loro a goderselo di più. In Italia avete inventato il termine slow food. A me piace pensare che il nostro sia slow journalism».

Allora è questa, in due parole, la formula segreta del «New Yorker». O no? «Una volta chiesero a Louis Armstrong cosa fosse il jazz e lui rispose che se non lo capisci ascoltandolo non ha senso provare a spiegartelo. Per le riviste, idealmente, dovrebbe essere così. Chi le conosce ne percepisce l'essenza. Chi non le conosce ma ne è incuriosito e le prende in mano, dopo un po' dovrebbe provare una connessione emotiva e intellettuale». Una sana dose di modestia non impedisce a Remnick di riconoscersi un ruolo nel rinnovato successo della rivista: «Penso al "New Yorker" come a un eccellente brano musicale, di quelli che in molti conoscono e che possono essere cantati o eseguiti dai talenti più diversi. Ognuno può dare un'interpretazione, più o meno memorabile. Non è facile, ma ci sto provando». Secondo almeno 1.024.882 persone ci sta riuscendo.

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