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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2011 alle ore 08:21.

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¶ «Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi e siano quivi sottoposti a un regime di vita identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell'animale-uomo di fronte alla lotta per la vita». Così scriveva il chimico Primo Levi in uno dei passi più famosi di Se questo è un uomo, tratto dal capitolo «I sommersi e i salvati», che sarebbe poi diventato il titolo del suo ultimo libro, uscito nel 1986. È la descrizione esatta di un «esperimento mentale», come quelli cui ci hanno abituato Galileo e Einstein, sostiene lo storico della scienza Massimo Bucciantini nel suo Esperimento Auschwitz (uscito ora per Einaudi in una pubblicazione bilingue legata al ciclo di Lezioni Primo Levi). Levi non avrebbe potuto concepire l'idea di un tale esperimento, e non avrebbe potuto descriverne i risultati con tale lucidità, se non fosse stato, prima che scrittore, scienziato. Se non avesse avuto un'attitudine a ragionare con lo stesso rigore sia quando il suo oggetto è la materia inanimata sia quando si tratta di esseri umani. Che cosa ha dimostrato il più terribile degli esperimenti che si possano pensare? Ci vollero quarant'anni per elaborare compiutamente il risultato, esplicitato da Levi in una visione della condizione umana che ha al suo centro la riflessione sugli «stadi intermedi», sulla «vasta fascia di coscienze grigie» e su quella che infine chiamerà la «zona grigia». Questa «lunga fase di incubazione – scrive Bucciantini – dipende anche dal pudore e dall'onestà intellettuale di chi sa di non avere ancora compreso perfettamente i molteplici meccanismi di un così complesso fenomeno umano: una forma particolare di reticenza che è figlia della sua educazione scientifica e che deriva dall'insicurezza di "dire delle cose giuste", per di più su un terreno – quello storico-sociologico – che non era il suo». Ma alla fine il risultato dell'esperimento fu chiaro. Rivelò l'esistenza di uno «spazio morale fittamente popolato», di una chimica sociale che «non è una caratteristica soltanto del mondo concentrazionario ma è parte integrante di ogni società umana». «Non siamo tutti uguali – scriveva Levi – abbiamo livelli di colpa diversi. Però siamo fatti della stessa stoffa. E un oppresso può diventare un oppressore. E spesso lo diventa. E questo è un meccanismo a cui si pone di rado mente».
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