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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2011 alle ore 08:22.

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Si sussurra di una Palma d'oro "annunciata": a The Tree of Life, la storia di formazione di Terrence Malick, attesissimo nel 2010 prima a Cannes e poi a Venezia e finalmente terminato e in concorso quest'anno al 64esimo Festival di Cannes, forte dell'interpretazione di Sean Penn, il "divo" del festival, protagonista anche di This Must Be the Place, il film americano di Paolo Sorrentino, anch'esso in competizione.
Il presidente della giuria Robert De Niro appartiene allo stesso "evo di idee" di Malick (sono coetanei, entrambi del 1943) e per di più deve amare parecchio Sean Penn, uno dei suoi eredi naturali. E comunque Malick conserva un'aura di maudit geniale, nonostante la cocente delusione del suo film precedente, quel The New World (2005) che pareva la versione intellettuale del disneyano Pocahontas. Ma la gara, sulla carta, è piuttosto combattuta. Dei venti autori in lizza, Moretti e Von Trier hanno già vinto una Palma d'oro, mentre i fratelli Dardenne ne hanno vinte addirittura due. E molti degli altri si sono aggiudicati vari Gran premi della giuria o alla regia, dallo spagnolo Almodovar al finlandese Aki Kaurismaki, dal francese Alain Cavalier al turco Nuri Bilge Ceylan. Pare cioè che, dopo l'edizione mestissima e talvolta di esasperante banalità del 2010, Cannes abbia ritrovato smalto. Nonostante la concorrenza serrata di Venezia, che gli ha soffiato uno dei titoli più attesi, A Dangerous Method di David Cronenberg. A fianco dei pluripremiati (che non sono, comunque, ottuagenari pomposi e spompati ma, al massimo, "splendidi sessantenni"), due esordienti nel lungometraggio (l'australiana Julia Leigh e l'austriaco Markus Schleinzer, allievo di Haneke) e qualche esordiente nel concorso maggiore, dal vulcanico giapponese Takashi Miike (che ha diretto 60 film in 15 anni ed è perciò il perfetto contraltare di Malick, 5 film in 35 anni) all'eccentrico danese Nicolas Winding Refn (quello del ciclo Pusher, autore di sotterraneo culto), dalla scozzese Lynne Ramsay (rivelazione nel 2001 con Ratcattcher) al furbo romeno Radu Mihaileanu (regista di Train de vie e Il concerto).
Per chi tifare? A parte l'intensa inquietudine di Habemus Papam di Moretti (premio a Michel Piccoli?), ci piacerebbe che finalmente fossero riconosciute la passione travolgente di Pedro Almodovar (che con La piel que habito torna a lavorare con le sue icone Antonio Banderas e Marisa Paredes) e la laconica eleganza di Aki Kaurismaki, che in Le Havre affianca Jena-Pierre Léaud alla sensualità triste di Kati Outinen.
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