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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2011 alle ore 16:13.

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Ella FitzgeraldElla Fitzgerald

Cantante? «Soltanto» cantante? O non piuttosto musicista a tutti gli effetti? Il che nel jazz vuol poi dire molto: vuol dire una completezza che include la composizione (quella, definita "spontanea", dell'improvvisazione).

Una tale interprete/creativa era Ella Fitzgerald, che per il titolo di regina del jazz collide artisticamente con la non meno grande Billie Holiday, della quale fu però più serena e popolare, più longeva e fortunata.

Ella era nata in Virginia nel 1917 da una ragazza madre che morì presto, e destino fu che la raccogliesse una zia che abitava a New York, nel quartiere – allora totalmente nero se non per il pubblico degli spettacoli – di Harlem. Fu così che a diciassette anni s'iscrisse a una gara per dilettanti nel mitico Apollo Theater: cantò e stravinse. Per la verità lei avrebbe preferito diventare ballerina, ma cantando per le strade si era già guadagnata qualche mancia e quella fu la sua vita.

Subito la ingaggiò Chick Webb, batterista magnifico nell'arte e deforme nel corpo, alla cui big band Ella nel 1938 diede il suo primo capolavoro, A tisket, a tasket, mostrandosi già ricca di genio per come mutò una cantilena bambinesca in un gioiellino swing. Alla morte di Webb fu lei, a ventidue anni, la bandleader, ma dopo un triennio, entrate in crisi le orchestrone, prese la via della solista, con i migliori partner, Armstrong, Basie ed Ellington compresi (e pianisti squisiti quali Larkins, Flanagan, Hank Jones, Peterson). Decisiva fu per Ella, dal 1946 in poi, l'ala protettrice del gigante tra gli impresari del jazz, Norman Granz, che fino alla fine le fu produttore discografico e manager. Con lui vennero i tour mondiali e, nella montagna di dischi, quel versante rigoglioso che furono gli otto songbooks dedicati ciascuno a un grande autore della canzone americana.

La voce infantile degli inizi si era inevitabilmente irrobustita, ma lei aveva saputo conservarle una grazia speciale con cui percorse ogni possibile repertorio, intagliando in ogni brano un bozzetto nuovo, ma senza ricorrere mai al drammatico, al plateale. All'ironia sì, eccome. Ne coglieva ogni occasione. Quando nel disco Ella in Berlin (1960) si produce nel brechtiano Mack the knife, a un certo punto si lancia in un buffo testo in cui inventa le parole, cita di tutto, imita la voce di Armstrong (una trascrizione è nel recente libro Jazz matters di David Ake, University of California Press). E altrettanto improvvisato fu quel suo afferrare al volo un canto di grilli nella pineta di Antibes per creare quella The cricket song che sta in Ella at Juan-Les-Pins (1964).

Come stupirsi che tutte le gemme del suo enorme retaggio siano ancora tanto ascoltate? E non soltanto per la nostalgia di chi l'ha conosciuta e seguita, come si usa dire, "dal vivo". Già, a pressoché esatti quindici anni dalla dolorosissima scomparsa – nel buio di una cecità pressoché totale e dopo amputazioni di cui il suo fedele pubblico rifiutò di sapere – la figura di questa artista eccezionale («La grande dame du jazz», dicevano in Francia, dove la nominarono commendatore) è ancora intatta. Quante volte al giorno dovremo ringraziarla, noi jazzofili, la tecnologia che tiene vive musica e persone?

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