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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2011 alle ore 08:19.

Sedici parole dall'Italia più giovaneSedici parole dall'Italia più giovane

C'è un modo che hanno solo i ragazzi, di scrivere le parole sopra gli zaini. Oppure sui muretti o sulle panchine, o sui tavolini di legno dei parchi. Ci si chinano sopra scrivendo ed escludono tutto il resto che gli sta intorno.

Qualcuno tira fuori la lingua, la infila in un angolo della bocca, tra le labbra. Poi una dopo l'altra incidono sul foglio – o sul legno, o sul cemento – le lettere, e dopo l'ultima lettera la parola nasce. Nasce d'un colpo, come per miracolo, per poi gridare il proprio suono.

Poi c'è un modo che hanno solo i ragazzi, di portare a spasso le parole neonate. Se le tengono aggrappate alla schiena, come a cavalcioni, scritte sopra gli zaini col pennarello. E poi vanno in giro con loro. Salgono e scendono dagli autobus, entrano ed escono dalla scuola, camminano sotto i portici con gli amici. E le parole stanno sempre lì, fiduciose, gli altri che se le vedono sfilare davanti, finire addosso sul bus, scomparire dietro l'angolo, sgonfiarsi ai piedi del banco, sul prato di un campo di calcio, accanto alla porta.

Le parole che un ragazzo si porta dietro scritte sullo zaino – o che incide sul legno di un tavolino, o che si tatua su un braccio, o che scrive con uno spray sopra il muro che corre accanto ai binari – dicono sempre una cosa soltanto, che non è il significato letterale della parola ma in qualche modo il nome di chi l'ha scritta, tutto quello che confusamente sta stipato dentro di lui. Come se le parole non fossero nient'altro che dei sacchi in cui ogni giorno finiscono cose diverse, e poi bastasse svuotarli, per capire cosa significano, come se dentro ci fosse una refurtiva, e bisognasse poi vuotare il sacco su un tavolo. Dentro ogni parola c'è un intrico di cose, alcune scassate, altre dimenticate, che non c'entrano niente l'una con l'altra, e che però stanno insieme, dentro la stessa parola, quella che magari sta scritta sul cavalcavia, che tu leggi la mattina presto passandoci sotto col treno.

Ecco, nel Bookstock Village di quest'anno, la sezione giovani del Salone del libro di Torino, abbiamo cercato di raccontare l'Italia del futuro dividendola in sacchi, facendo una raccolta differenziata di parole, quindici parole in cui raccogliere una specie di sentimento del tempo. Abbiamo voluto però che lo facessero loro, insieme a noi, che fossero gli stessi ragazzi a trovarle, perché l'Italia che volevamo raccontare era la loro, e perché eravamo stufi di pensare ai ragazzi soltanto come un target, che è parola che pertiene al linguaggio del marketing, e a quello della guerra: il bersaglio. Per tre mesi ci siamo incontrati con un gruppo di sedici ragazzi di alcune scuole superiori di Torino. Tre mesi di riunioni, mai meno di due ore ciascuna, e un confronto che con gli adulti ormai si trova di rado. Qualcuno ci ha messo un po' prima di avere il coraggio di parlare, altri che non avrebbero mai smesso, e Francesco che arrivava sempre in ritardo, Andrea che riconduceva tutto alla questione meridionale, Lorenzo, sempre accanto a Eleonora, che aveva le idee chiare su tutto, Alex che diceva che la parola «pongo» era quella che più rappresentava l'Italia, ed Eugenia che si è aggregata dopo, e Marco che puntualizzava con garbo, e Agnese e il suo mito di Saviano, e Nicola che non era mai d'accordo, e Francesca che prima arrossiva e poi non l'ha più fatto, e Giorgia che invece lei non ha mai smesso, ogni volta che parlava era come se accendesse una spia rossa, e poi dava fiato alle parole.

Alla fine dei nostri incontri settimanali l'Italia del futuro era tutta raccolta in parole, una sopra l'altra come bottini di una rapina, quindici sacchi pronti per essere portati al Salone. E sopra i c'erano scritte queste parole: «Futuro, Impedimento, Fiducia, Pantano, Me, Poverini, Svolta, Rivoluzione, Divertimento, Resistenza, Relativo, Denaro, Inquietudine, Femminile e Bellezza». Eccola qui l'Italia che abbiamo costruito.
Un Paese che si piange addosso ogni giorno, diviso tra vittimismo e paternalismo, che fa del lamentarsi un costume nazionale, e un alibi per non fare («L'unica parola che sanno dire tutti è Poverini», ha detto Matteo un pomeriggio, guardandosi le scarpe), un paese in cui si dice che tutto si può fare e però c'è sempre qualcosa che si mette di traverso (Impedimento), e tutto resta immobile (Pantano), anche perché forse in quel pantano qualcuno ci sta bene, perché il fango se non lo vuoi spalare via non pesa poi tanto. L'Italia è un posto in cui si annunciano di continuo svolte che poi sono falsi movimenti («Come mai tutti dicono che la Resistenza ha cambiato tutto e però l'Italia è rimasta la stessa di prima?», hanno domandato Virginia e Pilar, e «Perché si diceva che dopo tangentopoli l'Italia sarebbe stata un'altra ed è rimasta così?»), e si mettono le bandiere sui balconi a far finta di avere patrimoni comuni e poi ognuno se ne sta trincerato dentro casa, da solo, in un individualismo esasperato, e sa dire solo «Io» (Francesco: «La parola Io è ancora troppo. Serve qualcosa di ancora più piccolo, più individualistico: Me»).

E poi c'erano Camilla, Agnese, Sofia, che ogni volta alzavano la mano e dicevano che però c'era bisogno anche di altro, che c'era bisogno di futuro, di una strada da fare, che la rivoluzione è un evergreen, anche se poi non forse non era possibile per davvero, che forse del femminismo non è poi tutto da buttare. E però quando loro dicevano queste cose, quando proponevano le loro parole battagliere, poi si sgonfiava tutto in terra, la stanza in cui stavamo restava senza vento, come se con quelle parole non sapessero che farci. Come se nessuno avesse insegnato loro a usare delle parole che includevano, o pretendevano, il futuro, come se nemmeno i loro genitori le avessero mai usate. Le mettevano sul tavolo ma si vedeva che non sapevano fino in fondo cosa metterci. E così i loro sacchi rivoluzionari restavano piccoli piccoli, semivuoti, vicino a quel mucchio immenso che settimana dopo settimana veniva su. A guardarle, quelle parole indebolite, e gli occhi che le dicevano e poi si spegnevano, mi veniva un po' di malinconia, mi veniva da abbassare la faccia, da vergognarmene.

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