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Questo articolo è stato pubblicato il 14 maggio 2011 alle ore 14:34.

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Questo e' il giorno dei pirati: quelli dei Caraibi, naturalmente, che sbarcano sulla Croisette fuori concorso per inaugurare il weekend del festival. Johnny Depp e Penelope Cruz arrivano fra il delirio dei fotografi e dei fan, lei arrampicata su tacchi stratosferici, lui con il solito panama in testa e le bertelle dei pantaloni calate, ma dietro, in modo da non interferire con l'ufficialita' del photocall. Johnny si dichiara felice di aver recitato nel quarto film della saga: «La sfida era trovare per Jack Sparrow qualche aspetto inedito. Mi sono ispirato ancora una volta ai cartoni animati che guardo ancora con i miei figli: del resto ho sempre detto che Jack e' la versione umana di Bugs Bunny».

La cosa difficile, dice Johnny «e' stato smettere di cazzeggiare con Geoffrey Rush: facevamo finta di essere due vecchie signore che si detestano, e improvvisavamo all'infinito». «Per meinvece la cosa piu' difficile e' stata rimanere seria mentre quei due sparavano battute a raffica», si intromette Penelope. «Bisogna sempre cercare il doppiofondo di ogni scena, per vedere fino a che punto ci si puo' spingere», choisa Depp.

L'ultima puntata della saga di "Pirati dei Caraibi", che ha il sottotitolo "Oltre i confini del mare" ed e' stata girata in 3D (ma ce ne accorgiamo solo quando Barbossa sfodera la spada, o quando una scimmietta dispettosa ci arriva praticamente in faccia), vede Sparrow (Depp) protagonista assoluto, con il contorno di quel cast che ormai gli fa da posse permanente: da Barbossa (Rush) al padre (Keith Richards) al lupo di mare Joshamee Gibbs (Kevin R. McNally).

Le principali new entry sono invece la Cruz, alter ego femminile dell'imprevedibile Jack, Ian McShane nel ruolo del pirata Barbanera e un giovane predicatore (Sam Claflin), che da' a Sparrow l'assist per la battuta: «Ho sempre fatto il tifo per la posizione del missionario!» La regia, dopo la trilogia diretta da Gore Verbinski, passa a Rob Marshall, che ha firmato i musical «Chicago» e «Nine» e mette qui a frutto tutta la sua abilita' nel coreografare le scene di combattimento, e soprattutto la bellissima sequenza delle sirene che prima seducono, poi attaccano i pirati. Pieno di riferimenti all'attualita' (uno per tutti, Penelope Cruz che dichiara: «Sono incinta» e Depp che le risponde «Non puo' essere mio»),«Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare» e' il solito modo per Cannes di far contenti tanto il mercato americano quanto il pubblico della Croisette.

Sia il film israelianooggi in concorso, <<Hearat Shulayim>>, diretto da Joseph Cedar, che uno dei lavori piu' attesi della sezione Un certain regard, «Arirang» del maestro coreano Kim Ki-Duk, accennano a un tema ricorrente di questo festival, a cominciare da «Habemus Papam» di Nanni Moretti, ovvero la difficolta' contemporanea ad assumere le responsabilita' del ruolo di guida. Nel caso di «Hearat Shulaym», il cui titolo significa «nota a pie' di pagina», e il cui regista ha conquistato l'orso d'argento al festival di Berlino nel 2007 con «Beaufort», i due protagonisti, padre e figlio, sono ricercatori universitari, ma mentre il figlio, che ha saputo seguire le mode del momento e giocare bene le sue carte, ha accumulato notorieta' e riconoscimenti accademici, il padre, duro e puro, e' rimasto una «nota a pie' di pagina» nei saggi degli altri.

Questa disparita' di riconoscimento crea un'enorme tensione fra i due: il figlio si sente eternamente in debito col padre, il padre guarda al figlio con disprezzo e invidia. Ma le parti si ribalteranno grazie all'arrivo di un importante premio per il padre, il quale finira' per provare sulla propria pelle quella sindrome dell'impostore che ha tormentato il figlio prima di lui, data la sua vocazione al compromesso ai fini dell'ascesa nel ghota accademico. E' una storia complessa, ricca di rimandi al passato di Israele (i padri che fagocitano i figli, i figli che cercano di scalzare i padri) ma anche di quell'umorismo yiddish che fa polpette della spocchia di certi soloni universitari con la verita' in tasca. La storia mostra una comprensione profonda della complessita' dell'animo umano in tutte le sue accezioni, e anche se la regia e' piuttosto statica e la vicenda tende a trascinarsi troppo a lungo, «Hearat Shulayim» puo' legittimamente aspirare ad un riconoscimento per la sceneggiatura.

Molto piu' registicamente innovativo e' «Arirang» scritto, diretto, montato, prodotto e interpretato da Kim Ki-Duk. Niente a che vedere con i capolavori passati del cineasta coreano, quali «Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera» o «Ferro 3»: in «Arirang» Ki-Duk filma se stesso per quasi due ore, raccontando la crisi personale e professionale che l'ha visto allontanarsi dalle scene nel 2008, dopo il trauma di aver quasi perso per un incidente sul set l'attrice protagonista del suo «Dream». «Ero il regista, dunque il responsabile», dice Ki-Duk guardando in camera. E come il Papa di Moretti ha abbandonato il suo ruolo di responsabilita'. «Arirang» documenta questa fuga in un rifugio in mezzo al nulla, con Kim accampato all'interno di una catapecchia, autocostretto a nutrirsi dei frutti della terra, a lavarsi in un catino, a costruirsi un'artigianale macchinetta del caffe' (e qui capiamo da dove Ki-Duk abbia preso l'ispirazione per il protagonista dalle mani d'oro di «Ferro 3»).

«La gente pensera' che questo sia un documentario, invece sto filmando il mio dramma», dice il regista, che durante le riprese scoppia a piangere esibendo tutta la sua disperazione nell'essere «felice solo quando giro un film», eppure impossibilitato a farlo, lui che dirigeva un'opera all'anno, «come una macchina, come un pazzo fanatico». L'operazione e' interessante umanamente e anche tecnicamente, ma ha un grosso difetto: la vanita' personale del maestro, che continua a far riferimento ai numerosi premi ricevuti (allineati in fila nella sua baracca, accanto ai poster dei suoi film alle pareti) e che indugia eccessivamente sull'esternazione della propria sofferenza. Per fortuna Ki-Duk e' anche autoironico come dimostra nella scena in cui, ritraendosi al montaggio mentre visiona se stesso, si prende in giro da solo, e nel finale a sorpresa che non riveleremo, ma che e' un gioiellino di metacinema.

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