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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2011 alle ore 08:22.

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Giovedì scorso è stato presentato al Ministero per le Infrastrutture uno studio di archeologia preventiva per il completamento del l'Autostrada Tirrenica (Livorno-Civitavecchia). L'obiettivo principale di questo genere di ricerche consiste nell'abbattere il rischio che, nel corso di nuove opere, vengano alla luce resti archeologici inattesi. Un'eventualità da evitare non solo per i costi di fermo-lavori e varianti in corso d'opera (che per altro producono spesso un peggioramento qualitativo del progetto originario), ma anche, dal punto di vista della tutela, per l'estensione di scavi non programmati e condotti con procedure d'urgenza. Quando mi fu proposto questo lavoro le difficoltà erano evidenti. Si trattava di un'opera oggetto da decenni di discussioni tanto accese da impedirne la realizzazione; gli aspetti paesaggistici e archeologici poi erano stati sempre chiamati in causa da tutti. Ho istantaneamente immaginato il tracciato: Tarquinia, Cosa, Talamone, Roselle, e poi ancora su verso Vetulonia, Populonia, S. Silvestro... un percorso minato. Ciononostante erano altrettanto evidenti le opportunità che hanno poi guidato i successivi 14 mesi di lavoro e ne hanno determinato i risultati. La prima riguardava un aspetto apparentemente secondario, ma in realtà piuttosto ambizioso: individuare, per questo genere di studi, un denominatore comune, generalizzabile. Infatti, con la rilevanza guadagnata dall'archeologia preventiva in questi anni (soprattutto dopo la legge 109/2005), si sono anche moltiplicati i modi in cui è stata interpretata e declinata: come un'occasione per sperimentare particolari tecnologie, un'opportunità per scavare quanto più possibile, un modo per coinvolgere studenti di archeologia, e molto altro ancora. In tale scenario questo studio sembrava un'occasione importante. Un lungo tracciato (230 km) che attraversava luoghi assai diversi dal punto di vista geomorfologico, ambientale, paesaggistico, ma anche dei contesti archeologici sopravvissuti (etruschi, romani, medievali). Una varietà di situazioni che si prestava a sperimentare procedure-tipo da discutere con la Dg Antichità del Mibac.
Si è quindi partiti dalla predisposizione di un "contenitore", un sistema informativo territoriale (Gis), dove sono state immesse tutte le informazioni di diversa natura che man mano venivano raccolte: dati bibliografici, da foto aeree (storiche e recenti), da cartografie storiche, da ricognizioni di superficie eccetera. A seguito di questa operazione è stato possibile individuare tutte le aree che (per una maggiore concentrazione di evidenze o per la coincidenza e le specificità delle caratteristiche rilevate) presentavano un particolare rischio. Per usare la metafora di un protocollo medico si è proceduto, in successione, all'anamnesi del territorio, agli esami clinici generali, a eventuali tecniche diagnostiche specialistiche appropriate alle singole situazioni e indirizzate a evitare, o quantomeno ridurre, il ricorso a interventi chirurgici. Solo come ultima spiaggia infatti sono stati proposti, al parere dei funzionari competenti, limitati sondaggi di scavo (carotaggi o singole trincee esplorative).
Questi minimi cenni al percorso seguito mettono in evidenza un altro obiettivo strategico: la riduzione del consumo di contesti archeologici non ancora scavati. Scavare è conoscere, è vero, ma è anche distruggere: ce ne siamo dimenticati? Eppure già nel 1956 l'Unesco e nel 1967 la Commissione Franceschini richiamavano con grande forza a questa responsabilità: quali sarebbero le nostre conoscenze del mondo antico – si diceva – ove tutti i campi di scavo fossero stati esauriti con la tecnica embrionale e distruttiva dagli archeologi della prima metà dell'Ottocento? E quanto sarebbe preoccupante questa immagine se la applicassimo al futuro, qualora ci proponessimo a nostra volta di abbandonarci alla tentazione di esplorazioni intensive non indispensabili? Ecco, sposando questa filosofia, le proposte avanzate, per ogni area a rischio individuata, hanno teso a salvaguardare il più possibile anche il patrimonio sepolto. Una prospettiva prevalente pure nella valutazione di alcuni tracciati alternativi, per tratti particolarmente controversi, sui quali ci è stato chiesto di esprimere un parere. Scavare meno dunque, ma anche pubblicare di più. In questo caso l'accessibilità e la consultabilità, più ampia possibile, sia dei dati analitici che dei risultati della ricerca è stata perseguita utilizzando le possibilità offerte dalle tecnologie Web-Gis.
Questi gli obiettivi e i risultati immediati. Ma il fatto che tale lavoro sia stato condotto da un soggetto universitario, mi obbliga a richiamare un nodo da troppi anni irrisolto: la necessità di prevedere percorsi formativi, condivisi ed efficaci, finalizzati alla preparazione di archeologi competenti a operare sul campo e a dirigere questo genere di ricerche. Una criticità di cui viene sottostimata l'importanza e per la cui soluzione è necessario chiamare in causa il soggetto istituzionale competente: il ministero dell'Università. È necessario e urgente mettere a fuoco un processo che, al di la delle autonomie dei singoli atenei, garantisca una preparazione-base (adeguata, riconoscibile, condivisa) a tutti i soggetti che andranno a operare in questo settore. Figure professionali importanti, se capaci di assicurare, alle opere di trasformazione di cui il Paese ha bisogno, competenza ed efficienza per trattare un patrimonio territoriale, come il nostro, così capillarmente diffuso.

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