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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2011 alle ore 08:20.
Nel 1986 rivolsero a Giorgio Manganelli una domanda «maliziosa, disonesta, intellettualmente losca e improponibile», che suonava così: «Che cosa non è un racconto?», dove davvero losco era quel "non" che imprigionava la risposta. Lo scrittore però non si intimidì e rispose con tutta la sua irruenza di geniale connaisseur della letteratura. Stabilito che persino una ricetta dell'Artusi o la guida del telefono hanno una contorta parentela con tale genere narrativo, l'unica certezza possibile e conclusione accettabile gli parve quella che asseriva una lapalissiana eppure fragile verità: il racconto non è un romanzo. Manganelli naturalmente non si fermò qui, suggerendo per via negativa alcune preziose indicazioni: «Un romanzo si può scrivere solo rinunciando alle minuscole, ripetitive eresie dei racconti; le mostruosità effimere, le frettolose perversioni, gli appunti per un delirio». Perché se «il romanzo è impresa monoteistica», il racconto invece è per sua natura profonda sempre «polimorfo». E questo, potrei aggiungere con tutti gli appassionati del racconto, è la ragione del suo fascino intramontabile attraverso epoche differenti. Non la brevità, non la sobrietà, ma la mutevolezza dei suoi percorsi. Fatta salva un'unica condizione che è meglio riassumere con le parole di uno che se ne intendeva, Raymond Carver: «Adoro il salto rapido che c'è in un buon racconto, l'emozione che spesso ha inizio sin dalla prima frase...».
Rapidità ed emozione sono parole chiave: se un romanzo lo si può affrontare con calma, pazientando su una iniziale difficoltà, con un racconto non si può tergiversare, e l'autore lo sa: cominci a leggere e, se non sei dentro, sei fuori. Per questo, credo, certi racconti hanno incipit memorabili, come i tre che ora propongo. «Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato in un enorme insetto». Chi ha letto La metamorfosi di Franz Kafka difficilmente può dimenticare il salto rapido che il suo inizio prospetta. Così sapiente e così tendenzioso che fin da queste prime parole sappiamo che ci muoveremo tra l'assoluta realtà – il concreto insetto nella sua enormità – e il mondo misterioso e fantastico dei «sogni inquieti». Ma queste celebri righe sono per me meno perturbanti di quelle che propone ad apertura di una sua esemplare short story un altro maestro del racconto: «Era ora di colazione, e tutti sedevano sotto le due ali verdi della tenda da pranzo come se non fosse accaduto nulla». Quel «come se non fosse accaduto nulla» con cui Ernest Hemingway apre La breve vita felice di Francis Macomber sono un perverso segnale d'allarme che non permette al lettore di tirarsi indietro. Il terzo incipit che non ho mai dimenticato suona così: «Con la disperazione – gelida, acuta disperazione – conficcata in fondo al cuore come un perfido coltello, Miss Meadows, con toga, tocco e bacchetta in mano, percorreva i freddi corridoi che portavano alla sala da musica». Questo, della Lezione di canto di Katherine Mansfield, non è solo un salto rapido, è un vero concentrato di informazioni che ci trascina, come un forte vento improvviso, nel cuore di una situazione: musica e disperazione, una bacchetta in mano e un coltello conficcato nel cuore. Cosa sta succedendo a Miss Meadows?
Ma non solo nel momento iniziale l'autore di racconti deve avere l'energia – e l'anima – del centometrista. Dal momento che la storia deve espandersi e «sfuggire al suo destino di brevità», come scrive un'altra maestra della materia cioè Flannery O'Connor, lo scatto è necessario in ogni fase della corsa. Scatto mentale, polimorfismo della scrittura. Se Kafka racconta la vicenda fantastica del suo insetto con un realismo minuzioso tanto che alla fine di casa Samsa conosciamo ogni mobile e abitante, nel Cappotto Nicolaj Gogol' entro lo spazio di poche righe travolge il crudo realismo della sua narrazione con l'inaspettata irruzione di un fantasma: il suo protagonista da impiegato umiliato e maltrattato in vita si trasforma, dopo la morte, in uno spettro temuto e trionfante. Carver diceva che un racconto si può «leggere e scrivere in una sola seduta». Mi sembra vero per quel che riguarda la lettura – è una delle seduzioni non secondarie di questo genere letterario – ma molto meno per quel che riguarda la scrittura (lui stesso del resto ammette che ognuna delle sue short story, sia pure stesa in una sola seduta, lo obbligava a un altissimo numero di revisioni). Perché chi scrive un racconto si accolla la responsabilità di non lasciar mai cadere la tensione e non può permettersi tempi morti, come può invece l'autore di romanzi, al quale il lettore perdona qualche pagina un po' debole o qualche raccordo goffo (non troppi, ovviamente) perché confida, come confida il romanziere, nel tempo lungo dell'azione. Per questo un racconto è facile da leggere, difficile da scrivere. Ed è per la sua capacità di tensione e la sua densità che spesso a un racconto si attribuisce, all'interno di una letteratura, un valore germinale. Dal Cappotto di Gogol si dice che nasca la grande letteratura ottocentesca russa, ma infinite storie sono nate dagli «appunti per un delirio» di Edgar Allan Poe e infinita ispirazione dall'«eresia» di Bartleby lo scrivano di Melville o dalle «mostruosità effimere» di Kafka.
Così polimorfo il racconto, così misteriosa la sua formula, che per quante analisi ne sono state fatte e definizioni tentate ognuno è un caso a sé e rappresenta sempre l'eccezione rispetto alla regola. Per fare un solo esempio, impossibile trattare come un modello esclusivo la perfetta scrittura tutta azione e dialoghi di un Hemingway o di un Carver se si conosce lo stile meditativo dei meravigliosi racconti di Elias Canetti raccolti in Le voci di Marrakesh. Niente azione né dialoghi, solo figure sfuggenti, apparizioni, luce, silenzi. Come in La donna alla grata: una stradina, un uomo che passeggia, un volto femminile intravisto dietro l'inferriata di una finestra, un mormorio cantilenante bastano allo scrittore per lanciare al lettore la sua sfida narrativa.