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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2011 alle ore 18:34.

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Uno dei tratti distintivi del jazzfest di Vicenza, giunto alla XVI edizione, è il quaderno che ne illustra ogni anno il programma e che contiene articoli di vivo interesse. Il quaderno 2011 è in realtà un libro di 112 pagine nel quale si leggono interventi di Enzo Capua, Enzo Boddi, Maurizio Franco e Francesco Martinelli dedicati a New York oggi (era il tema del festival), Uri Caine musicista del nostro tempo, I mille suoni della Grande Mela e Il Klezmer e la musica ebraica nel jazz. Quest'ultimo è un saggio da non perdere, del quale non si conoscono precedenti di uguale spessore in Italia, completato da un'esauriente bibliografia e consigli su dischi e siti web da consultare.

Passiamo agli episodi più significativi del ricco cartellone, ma premettiamo una goccia amara. I concerti principali si sono tenuti di sera al Teatro Comunale – o nell'incanto del Teatro Olimpico di Andrea Palladio – e nei Chiostri di Santa Corona, rispettivamente alle 21 e alle 22. Troppo ravvicinati, specie nei casi degli spettacoli al Comunale e a Santa Corona che si trovano ai lati opposti della città. Ne ha sofferto soprattutto il quartetto del sassofonista amerindiano Rudresh Mahanthappa, una delle rare rivelazioni del jazz americano attuale, poco conosciuto in Italia se non da chi abbia assisttito nello scorso marzo a Pavia al suo magnifico duo con il pianista Vijay Iyer (un altro amerindano). Peccato.

Ciò detto, la palma del migliore spetta al progetto Mahler Re-Visited di Uri Caine in sestetto. Tutto cominciò quindici anni fa per questo straordinario pianista e compositore, quando il discografico Stefan Winter rimase impressionato da una citazione di Gustav Mahler contenuta in un'improvvisazione di Caine. Nacque così il cd Primal Light con musiche di Mahler arrangiate e adattate da Caine. È un disco al quale il pianista si ispira ancora. Nel bellissimo concerto, infatti, si sono riconosciuti la Trauermarsch e l'Adagietto della Sinfonia n.5, alcuni Kindertotenlieder e sequenze da Lied von der Erde, tutto alla maniera di Caine.
I numerosi aficionados dei Five Elements del sassofonista Steve Coleman, uno dei nomi illustri più attesi, si sono detti delusi. Però la celebre formazione ha offerto buona musica, sebbene un po' monocorde per via dell'esecuzione quasi priva di soluzioni di continuità. Nella stessa sera ha meritato vigorosi applausi il trio "americano" del pianista genovese Dado Moroni con Rosario Giuliani sassofoni e Joe Locke vibrafono.

Forti discussioni sono nate a proposito della Guataca del sassofonista Chico Freemancon il trombettista-pianista-chitarrista Arturo Sandoval. Chi avesse ingenuamente atteso la "spanish tinge", la tinta spagnolesca di certo jazz dei tempi andati, è stato travolto da ritmi afrocubani a tutto volume, capaci di sollecitare ovazioni da stadio. Unanimi consensi ha riscosso comunque il polistrumentista Sandoval, musicista di valore assoluto. Qualcosa di simile si può dire per la giovane pianista giapponese Hiromi Uehara, pupilla del virtuoso Ahmad Jamal, ascoltata con l'Orchestra del Teatro Olimpico diretta da Giancarlo De Lorenzo. La brochure annunciava i Tre Preludi di George Gershwin in versione orchestrale di Roberto Spadoni (una pregevole prima assoluta), la Rhapsody in Blue e un secondo tempo in solo.

Hiromi ha tecnica, tocco, diteggiatura e indipendenza delle mani fenomenali, ma su queste doti impernia ogni esibizione. Al punto da raddoppiare, o quasi, la durata della Rapsodia approfittando dei due settori solistici che la partitura concede, e da trasformare la seconda parte in solo del concerto in una serie di cavalcate frenetiche, salvo un paio di pezzi lenti nei quali – finalmente – si sono percepite emozioni. Sarebbe stato interessante ascoltarla in qualche brano interamente obbligato. Ma non mancherà l'occasione.

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