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Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2011 alle ore 08:22.

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Quando vivevo a Milano, mi accadeva spesso di passare in via Spiga, la via che con Montenapoleone si contende il primato delle vetrine della moda. Qualche volta gettavo uno sguardo su un edificio immune da quell'invasione: è una scuola elementare per i non molti bambini residenti in un quartiere così esclusivo e asettico, e talora mi è passato per la mente che proprio da quei cancelli, decenni prima, era uscito un ragazzino che avrei voluto incontrare da adulto. Non fu possibile perché quell'uomo morì nel 1967 a 44 anni, quando io ero da pochi mesi sacerdote. Anche lui era divenuto sacerdote vent'anni prima a Firenze e avrebbe lasciato – sia pure nell'isolamento di un paesino del Mugello – una forte traccia nella storia ecclesiale e culturale del nostro Paese.
Forse alcuni hanno capito di chi sto parlando: don Lorenzo Milani, fiorentino, aveva vissuto la sua adolescenza e giovinezza a Milano. Là, infatti, con la sua famiglia borghese e intellettuale di matrice ebraica, era approdato nel 1930 a sette anni. Aveva, quindi, frequentato quella scuola elementare di via Spiga e poi il liceo Berchet, per iscriversi infine all'Accademia di Brera, anche perché aveva ricevuto una formazione in questo senso attraverso la guida del pittore tedesco Hans Joachim Staude, e il padre gli aveva persino affittato uno studio in piazza della Repubblica. La morsa della guerra aveva costretto la famiglia Milani a ritornare a Firenze nel 1943 e fu là che iniziò la vicenda spirituale di Lorenzo il quale, tra l'altro, era stato battezzato solo a dieci anni.
Non è il caso di ricostruire ora la storia tormentata e gloriosa di questo sacerdote di straordinaria genialità, di intensa spiritualità e di profonda umanità. Quella modesta frazione del comune di Vicchio denominata Barbiana, ove egli era parroco, è divenuta una sorta di emblema che ancora oggi – nonostante il flusso del tempo e la temperie piuttosto degenerata in cui siamo immersi – rimane come una piccola stella di riferimento. Così come lo sono gli scritti di don Lorenzo che cristallizzavano in sé una vicenda unica di fede e di cultura, a partire dalle Esperienze pastorali del 1958, passando attraverso L'obbedienza non è più una virtù, per approdare a quel dittico "epistolare" indimenticabile della Lettera a una professoressa (1967) su un originalissimo progetto educativo e della Lettera ai cappellani militari della Toscana (1965) sull'obiezione di coscienza, che gli costò una condanna per apologia di reato in Corte d'Appello, condanna postuma perché pronunciata a un anno dalla morte!
Due mesi prima di morire, in un'altra lettera, descriveva così il suo stile personalissimo: «Lo stare per mesi su una frase sola togliendo via tutto quello che si può togliere». Sembra di sentire il Calvino delle Lezioni americane, quando comparava il lavoro dello scrittore a quello dello scultore che crea la sua opera scalpellando materiali dal blocco di marmo, ed era in una delle sue Lettere provinciali che Pascal allo stesso modo annotava: «Ho fatto questa lettera più lunga solo perché non ho avuto tempo di farla più corta». Don Milani aveva cercato sempre l'essenziale, spogliando la verità dal paludamento della retorica e dal manto dorato del l'ipocrisia, seguendo un programma costante e lineare perché «un atto coerente isolato – scriveva – è la più grande incoerenza».
Fu anche per questo che rimase allora incompreso, a partire dalle stesse autorità ecclesiastiche. Eppure egli fu sempre fedele alla sua Chiesa. Un suo compagno di seminario che sarebbe poi divenuto arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli, mi ricordava questa significativa testimonianza di don Lorenzo: a chi gli chiedeva perché mai non avesse lasciato quella Chiesa così dura nei suoi confronti, egli rispondeva: «E dove mai troverò chi mi perdona i peccati?». Nelle Esperienze pastorali rivelava, infatti, un vero temperamento da asceta, consapevole della fragilità umana e della necessità del perdono divino: «Il primo problema del cristiano dev'essere racchiuso in queste cinque parole: esame di coscienza, dolore, proposito, accusa, penitenza». È appunto questa la trama del sacramento della riconciliazione.
Nello stesso libro egli puntava l'indice contro la grande tentazione, quella della superbia intellettuale: «Siamo in un mondo in agonia che Dio sta forse accecando per castigarlo di aver troppo e troppo male usato dell'intelletto, oppure di non averne fatto parte agli infelici». Il suo amore per la creatura umana era totale: «Il cuore dell'uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un'anima non si muta con una parola», scriveva a quella "professoressa" rigida nel suo ottuso sapere. Ed è per questo che nel suo testamento ai ragazzi di Barbiana non esitava a scrivere queste parole evangeliche (si legga Matteo 25,40!): «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».
Queste parole chiudono il libro che avremmo dovuto recensire, ma che in realtà non ha bisogno di analisi. Dovrà solo essere "contemplato" e si rivelerà come una mirabile biografia di don Milani: si tratta, infatti, della sequenza di "immagini di una vita" provenienti dall'album dell'amata sorella Elena, a cominciare dalla casa delle origini toscane fino a quel commovente abbandono nel sonno su una sdraio – turbato da uno dei suoi ragazzi – poche settimane prima della morte, quando già il male si era insediato nel suo corpo nobile e fine. Poche pagine scritte aprono e chiudono il libro, compreso un testo appassionato e limpido di padre Ernesto Balducci. Walter Benjamin, prima, con la sua Piccola storia della fotografia (1931), e Roland Barthes, poi, con la sua Camera chiara (1980), ci hanno insegnato quanto sia efficace e potentemente espressivo un simile mezzo nato a metà del l'Ottocento. È per tale motivo che consigliamo questo ritratto "visivo" della vita di don Lorenzo Milani, un sacerdote che aveva confessato: «Dove è scritto che il prete debba farsi voler bene? A Gesù o non è riuscito o non è importato». È per questo che, se l'ultima foto è quella della sua tomba, vale ciò che di lui scriveva Enzo Biagi: «È sepolto nel cimitero di Barbiana, sperduto e vuoto paese abitato dagli spiriti. Ma don Lorenzo parla ancora».

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