Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2011 alle ore 08:19.

My24

Tenetevi forte: L'isola di Sukkwann non è un romanzo per signorine. A tre quarti del libro, arrivati alla svolta narrativa, verrebbe voglia di mandare al diavolo David Vann, l'autore: non perché il colpo di scena sia poco credibile, anzi; né perché sia scritto in modo dilettantesco o, al contrario, perché grondi di autocompiaciuta sapienza autoriale; solo e semplicemente per il fastidio emotivo che procura l'episodio. Di fondo, il lettore è un ottimista. Punta quantomeno a un mezzo lieto fine o a un finale aperto. Qui, invece, si trova di fronte alla fenomenale descrizione di un personaggio bacato da quella diffusa forma di autolesionismo che finisce per ledere anzitutto le vite degli altri; un uomo affetto da presunzione, immaturità, leggerezza e incapace di calcolare le irreversibili conseguenze dei suoi stupidi capricci. Ma andiamo con ordine.
Un dentista separato da due mogli, con problemi di pendenze fiscali, chiede alla prima, madre dei suoi figli, di prestargli il maschietto tredicenne per fare una rigenerante esperienza di puro pionierismo americano. Un anno sabbatico su un'isola deserta in una zona disabitata dell'Alaska. Vivranno di caccia e pesca, di legna nella stufa e paesaggi sconfinati, di passeggiate coi racchettoni e rude vita selvaggia. Ryan, il ragazzino, pieno di sensi di colpa (il padre è depresso, è stato abbandonato dalla seconda moglie, ha venduto lo studio dentistico per comprare il capanno sull'isola e portarlo a vivere l'irripetibile esperienza formativa), accetta malvolentieri. Pensa che, se non lo facesse, il padre potrebbe impazzire o suicidarsi. Si sente responsabile. Inutile raccontare altro: una volta preso in mano il romanzo, sarete catturati.
Dalla trama, dai paesaggi, dalla scrittura. C'è un pizzico di Into the wilde (il film di Sean Penn), c'è il mito americano della frontiera, c'è Jack London ma anche Richard Ford, c'è l'immancabile denuncia delle mostruosità di certe famiglie sconclusionate. E c'è soprattutto una scrittura funzionale al dettato, ben servita dalla traduzione di Sergio Claudio Perroni. L'isola di Sukkwan è insomma un romanzo decisamente riuscito, claustrofobico e affascinante, che mette in scena il rapporto tra un padre e un figlio, rapporto in cui i ruoli si ribaltano; cosa che spesso capita nella vita dei figli di genitori separati. L'insieme del racconto contiene un completo campionario di disavventure del l'aspirante colonizzatore: l'orso che fa fuori le provviste, l'aquila che ruba i pesci appena pescati, la radio che non funziona, la terra che frana, la legnaia che imbarca acqua. Gli aggettivi più frequenti sono "fradicio" e "marcio". Tutto lo è, a partire dalla legna, perché piove sempre, oppure nevica o si è avvolti nella foschia. Eppure, in mezzo a una natura così inospitale, la vera avventura si gioca negli altalenanti stati d'animo e negli scatti d'umore di Jim, il padre di Ryan. Come a dire che non c'è natura ostile che tenga di fronte alle bizze di un essere umano. David Vann è molto abile nel raccontare come Ryan osservi il padre con sospetto, circospezione e crescente fastidio, così come nell'uso di dialoghi ridotti all'osso: le comunicazioni minime di due persone impegnate a salvarsi la vita, inizialmente insieme e poi ognuno per conto proprio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
l'isola di sukkwann David Vann traduzione di Sergio Claudio Perroni Bompiani, Milano pagg. 195|€ 16,00

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi