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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2011 alle ore 08:21.

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Non incoraggiate il romanzo (Marsilio) è il libro di critica militante più bello di questi anni, benché Alfonso Berardinelli non sia propriamente un critico militante. E lo è, nonostante la dichiarata casualità delle recensioni, perché l'autore rende conto con onestà, penetrazione e una singolare aderenza all'oggetto, di ventidue libri usciti dal 2004 a oggi (mi evoca Verticale del '37 di Giacomo Debenedetti, dove le considerazioni del grande critico risultano alla lunga ben più durevoli dei romanzi, colà recensiti, di Gaudenzio o Descalzo...). Dal punto di vista del metodo quella di Berardinelli è una critica "sensoriale", quasi una protesi intellettuale del suo apparato emotivo e percettivo. Qualche prelievo: «Non riesco a capire la vita che fa», «Ho appena finito di leggere... e mi chiedo che cosa ho letto, che cosa ho capito», «Mi è piaciuto molto ma non so come dirlo», «Non riesco a immaginare come farò a recensirlo», «leggendo questo libro ho di nuovo imparato a dubitare di tutto» eccetera. Probabilmente mai tra i libri e la vita la relazione era stata così scandalosamente diretta, e così feconda dal punto di vista conoscitivo. Il libro si compone poi di dieci ritratti di altrettanti classici del '900 italiano (da Vittorini e Gadda a Tomasi di Lampedusa, Soldati, Parise, Landolfi eccetera), più alcuni interventi su temi letterari. Ma soprattutto Berardinelli premette all'insieme degli scritti una breve (e polemica) nota che spiega il titolo e che ci informa sull'involuzione attuale del romanzo, scaduto a genere non più letterario ma editoriale e merceologico. Sono d'accordo con la diagnosi, ma vorrei fare due osservazioni, una su certa fatale "incoerenza" dell'autore e l'altra su una ipotesi diciamo così "propositiva", in cui tento di ritradurre la battaglia di Debenedetti per il romanzo (di quasi un secolo fa...).
Sulla relativa "incoerenza": nonostante il titolo a ben vedere Berardinelli si appassiona, inevitabilmente, a questi romanzi che legge e recensisce con tanta cura. Li indaga, li spreme, li interroga, e alla fine ne trae sempre spunti di notevole interesse (anche solo per dimostrare a se stesso di non aver perso tempo!). Alcuni poi li definisce senz'altro «davvero belli» e un giudizio largamente positivo viene espresso almeno sui libri di Pascale, Villalta, Lagioia, Ruggero Savinio e Antonio Debenedetti (non è poco). Può darsi che il romanzo italiano sia oggi in crisi, ma lo è almeno dal dopoguerra. Né sono convinto che i personaggi di – poniamo – Vittorini o Sciascia, abbiano più suggestione "mitica" di quelli di Ammaniti.
Osservava Leslie Fiedler che quando Dio muore rinascono gli dei. Così anche alla morte del romanzo subentra il politeismo, fioriscono una molteplicità di generi e sottogeneri. Proviamo allora a chiederci: la battaglia di Debenedetti in favore del romanzo come espressione di una modernità critica e dialogica (e sempre per noi incompiuta) si può oggi riformulare? Ho una ipotesi al riguardo. Credo che gli elementi sparsi che entravano in quel composto si siano separati tra loro e si ritrovino oggi separati, in libri assai diversi tra loro: descrizione della società, meditazione morale, costruzione di personaggi-guida, polemica con il proprio tempo, introspezione, gusto della narrazione, pensiero critico, autobiografia. Spetta al lettore ricomporre i vari pezzi e dunque ricostruire, all'interno della propria multiforme esperienza di lettura, il "romanzo" che sia all'altezza dei tempi. Va bene, continuiamo a non incoraggiare la pubblicazione di romanzi, ma sapendo che al lettore è richiesto oggi un ruolo più forte, quasi demiurgico. Ecco, il lettore, quello sì, va incoraggiato.
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