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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2011 alle ore 15:27.

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Hemingway e Cortázar. L'Hemingway che ripeteva che si possono scrivere ottimi romanzi con parole da cento dollari, ma che la cosa davvero meritevole è scriverli con parole da venti centesimi. E il Cortázar grande appassionato di pugilato che, paragonando la narrativa a un incontro di boxe, scriveva che il romanzo può vincere ai punti, ma il racconto deve vincere per Ko. Sono loro, a detta dello stesso Luis Sepúlveda, i numi tutelari della sua scrittura. E infatti non è un caso che l'autore cileno dia il meglio di sé nelle narrazioni brevi, nei romanzi poco più lunghi di una nouvelle, come Il vecchio che leggeva romanzi d'amore, o nei suoi tanti racconti, in cui può curare fino al parossismo l'economia dei mezzi narrativi, la brevità, la concisione che gli sono congeniali, ottenendo il risultato di tenere sempre vivo il ritmo e il respiro delle storie che racconta, senza rinunciare a sfaccettare caratteri, paesaggi, situazioni, grazie alla capacità di racchiudere lunghi discorsi in intense e fulminanti pennellate.

Diario di un killer sentimentale è, appunto, un piccolo, denso libro che scorre via con la consueta fluidità e calviniana "leggerezza" delle storie di Sepúlveda, mentre il suo killer innamorato, un sicario abituato a portare freddamente a termine «incarichi» la cui ricompensa «ha sei zeri sulla destra ed è esentasse», si muove fra taxi e aeroporti di mezzo mondo, fra anonime camere d'albergo in Spagna, Francia, Germania, Turchia e Messico, in preda a una malsana e poco professionale curiosità per i retroscena dell'incarico affidatogli, nonché a un'incontrollabile depressione perché la sua ragazzina francese dai fianchi sodi e dalla bocca carnosa lo ha appena piantato.

Lei, infatti, gli comunica via fax dal Messico che non tornerà dalle vacanze perché si è innamorata di un fascinoso e aitante giovanotto locale, e lui, che è sempre stato un cinico, precipita nella disperazione, violando così «varie regole sulla sicurezza, soprattutto quelle che si basano sulla solitudine e sull'anonimato, sul restare uno sconosciuto, sul non essere altro che un'ombra». Risultato: da un incidente all'altro, da un passo falso al successivo. Verrebbe voglia di chiudersi in una camera d'albergo con una prostituta d'alto bordo, perché «un professionista vive solo, e per dar sollievo al corpo il mondo offre un'ampia scelta di puttane». Verrebbe voglia di sbronzarsi fino a non poterne più, ma un professionista è sempre un professionista, e c'è un incarico da portare a termine. E così, tra agguati, ore morte d'attesa, serrati colloqui con la propria immagine allo specchio, sparatorie e inseguimenti, si scoprirà che per lui amore e lavoro tendono a intrecciarsi e a coincidere, fino al colpo di scena finale a Città del Messico.

Più che mai in questo Diario, l'asciuttezza della prosa di Sepúlveda non va a discapito dell'intensità emotiva e della passione. Merito, forse, anche del fatto che il libro nasce davvero da un'atroce delusione amorosa patita dallo scrittore.

«Dato che a lei – ci ha confessato Sepúlveda –, alla responsabile in carne e ossa di quella delusione, non potevo augurare nulla di male, ho voluto prendermi una rivincita, almeno letteraria. È uno dei piccoli lussi che può permettersi uno scrittore. Certo, se fossi stato un ingegnere che costruiva ponti, immaginatevi la tragedia... Invece, per fortuna, scrivo libri. Il Diario è nato così, da quella voglia di rivincita. Però poi, quando ne avevo già scritto un bel pezzo, quella voglia mi è passata. Il personaggio ha iniziato a piacermi, a coinvolgermi. Come me, aveva giocato a fare il pigmalione, un errore che non si dovrebbe mai commettere. Alla fine, il romanzo racchiude una riflessione su una solitudine molto tragica: quella dell'uomo attorno ai cinquant'anni, assalito da mille nuove paure, con il bilancio della propria vita ormai da tracciare e la morte che si fa irrimediabilmente più vicina».

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