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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2011 alle ore 08:22.

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Ogni volta è un record e quest'anno siamo a 89. Sulla questione del padiglione nazionale si dibatte da più di mezzo secolo, eppure mai come ora sembra tornare in voga l'idea di Nazione, non solo lì dove i confini sono stati disegnati artificialmente sulla carta dai colonizzatori occidentali, ma anche in quei Paesi dove la comunanza di territorio, lingua e cultura ha da tempo assunto una coscienza precisa.
È questo il cardine attorno al quale si aprono i padiglioni della 54ma Biennale. Non a caso Bice Curiger ha chiesto a ogni artista di rispondere a cinque domande sull'idea di Nazione e arte, perché siamo abituati a identificare uno Stato con una cultura, come afferma l'antropologo inglese Ernest Gellner, ma i fatti che stanno accadendo nel mondo ci dicono altro. Siamo tutti alla ricerca di una nuova identità nel mondo globalizzato, e questa è la vetrina che consente i pensieri più audaci, non solo in termini visivi, ma considerando l'arte uno strumento per incontrare il mondo, confrontarsi con la realtà e la vita, nel momento stesso in cui la viviamo.
Per questo è rilevante che l'Africa, che nel 2007 era presente con un unico padiglione, partecipa oggi con diverse facce: Congo, Sudafrica e Zimbabwe. Proprio quest'ultimo dichiara l'importanza di avere una visione individuale sugli oltre cinquanta Stati che compongono il continente, pur proponendo artisti già noti all'estero come Misheck Masamvu (1980). L'India, invece, che non tornava dal 1982, dimostra di non aver saputo cavalcare il trend che a cavallo del Duemila l'aveva spinta sotto gli occhi di tutti, presentando una scelta di artisti piuttosto debole, dove si distingue solo l'ascensore di Gigi Scaria (1973) che da un anonimo parcheggio ci fa salire attraverso tutti gli stereotipi delle case borghesi di Nuova Delhi. Cile e Haiti sono presenti con due degli enormi terremoti che hanno sconvolto la terra e osservarne le differenze espressive ci dice più di quanto pensiamo. Nell'alveo dell'arte di matrice europea il primo, con un lavoro che registra la violenza del terremoto tramite l'espediente dell'impronta; più naïf e creativo il secondo, che in una selezione di 18 artisti indica il caos come motore della società. L'Argentina, che da quest'anno avrà finalmente il suo padiglione permanente all'Arsenale, propone l'opera monumentale di Adrian Villar Rojas nato a Rosario di Santa Fè trentuno anni fa. Le sue sculture alte più di sei metri in argilla, riportano all'arte antica, progettata e realizzata sul luogo con l'aiuto di più persone, citando inconsapevolmente uno dei monumenti più imponenti di tutta l'Argentina, il Monumento a la Bandera, costruito proprio a Rosario. C'è chi abdica totalmente all'idea del padiglione, come la Norvegia che quest'anno organizza una serie di dieci conferenze su temi diversi. Jacques Rancière, è il primo della lista di nomi autorevoli invitati dall'Office for Contemporary Art di Oslo, e ragiona sulle logiche del dominio e della critica, ripensando il concetto di tempo dopo la distruzione delle consuetudini. Fra gli altri ospiti, l'attivista indiana Vandana Shiva (1952) riflette sul tema della sostenibilità globale, Saskia Sassen (il 20 ottobre) parlerà delle nuove sfide per le metropoli globali e lo storico dell'arte T. J. Clark (17 novembre) rifletterà su temi politici e immaginario visivo. Il video nel padiglione Egiziano è talmente potente da riassumere tutte le tensioni esplose nei Paesi dell'Africa del Nord. Crudo, proietta l'ultima performance artistica di Ahmed Basiouny (1978-2011) accanto alla sua vita di cittadino egiziano, visibile nei filmati degli eventi avvenuti al Cairo nel gennaio 2011 che Basiouny filmava e scaricava sul suo computer, ogni sera, fino al 28 gennaio, giorno della sua morte a causa delle ferite da arma da fuoco inflittegli dai cecchini. Una forma di resistenza estrema, forse paragonabile solo alle dichiarazioni di Thomas Hirshorn che nello statement di accompagnamento della sua grotta cabalistica per il padiglione svizzero, afferma: «l'arte resiste alle opinioni, alle informazioni, ai commenti, resiste alle consuetudini politiche, estetiche e culturali. Con il mio lavoro voglio ritagliare una finestra, una porta, un'apertura o semplicemente un buco nella realtà di oggi». Affermazioni forti che portano la questione sui temi della libertà di parola, affrontati dal padiglione danese con una mostra collettiva sull'impossibilità per il linguaggio (visivo, sonoro o documentale), di essere strumento di comunicazione assoluto. Che si tratti di lingue non conosciute, come nell'opera di Ayreen Anastas & Rene Gabri, in cui le parole scritte assumono una forma visiva invece che sonora, siamo impossibilitati a parlare realmente, come nei piccoli dipinti di Tala Madani (Iran, 1981). Nel padiglione polacco l'indimenticabile trilogia video di Yael Bartana (1970, Israele) costruisce un racconto quasi mitologico sulla storia del Movimento per la Rinascita Ebrea in Polonia, raccontato nella tradizione dei film di propaganda sovietica degli anni Quaranta e Cinquanta. Non sappiamo se è finzione o realtà. Su tutto, l'immagine esplicita del corridore che fa jogging sopra un carrarmato rovesciato, dunque inutile, ma in movimento. È l'opera di Allora e Calzadilla per il padiglione americano. Una macchina del piacere duchampiana, che ci dice che il movimento è vano, quanto la guerra, forse, ma intanto continuiamo a correre incuranti delle tragedie del mondo, tronfi sui valori di forza, potenza e razionalità. Come suggeriscono Beat Wyss e Jorg Scheller nel bel saggio sulla Storia della Biennale in catalogo, in questi giorni Venezia è un bazar di spazi e storie diverse, dove anche la ricostruzione del caravanserraglio di Mike Nelson, uno dei padiglioni inglesi più emozionanti da anni, diventa un'eterotopia in senso foucaultiano: così diverso, eppure così reale, in questa Babele di lingue, culture e facce che per cinque giorni invade Castello, facendolo diventare l'ombelico del mondo.

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