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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2011 alle ore 08:23.

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Se volessimo adottare una suggestiva immagine orientale, potremmo dire che la cultura ebraica è come un diamante: è unica ma ha molte facce. Una di questa sfaccettature va sotto la tassonomia scolastica di "giudaismo", una classificazione generica che tenta di abbracciare un arco storico molto variegato che procede dall'epoca successiva all'esilio babilonese (VI secolo a.C.) e avanza fino all'era ellenistica e oltre. Una pluralità diacronica che non può essere compressa in un'unica sincronia tematico-ideale, come spesso si è fatto. Ecco, allora, ulteriori suddivisioni: ad esempio, una recente raccolta di saggi di uno dei nostri maggiori ebraisti, Paolo Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo, ha come sottotitolo «Riflessioni sul giudaismo antico e medio», laddove già brilla una demarcazione che non è solo cronologica. Essa, infatti, si rivolge a un passato glorioso, s'affaccia su un orizzonte intermedio, ma si proietta con lo sguardo anche verso il giudaismo intertestamentario ove ormai si è insediato con la sua potenza il Nuovo Testamento e il suo corteo di apocrifi che fanno da contrappunto a quelli giudaici antecedenti.
È significativo far conoscere quanto vivace sia la letteratura storico-critica che in Italia fiorisce attorno a questo arcobaleno culturale e religioso. Tra le mani si può sempre tenere l'opera di sintesi di una figura significativa come Clara Kraus Reggiani della Sapienza di Roma, che a lungo ha operato in un settore complesso com'è quello studiato nella sua Storia della letteratura giudaico-ellenistica, pubblicata nel 2008, vero e proprio "succo" di una diuturna consuetudine con questa particolare temperie storico-culturale, in particolare con l'amato Filone di Alessandria, espressione alta del giudaismo ellenistico egiziano. Accanto a questa che può essere considerata una sorta di mappa, poniamo il testo di un'altra studiosa di grande raffinatezza, Francesca Calabi dell'università di Pavia. Qui il respiro è più ampio e punta all'identificazione di un pensiero molto iridescente non sempre strettamente "filosofico" che oscilla tra due poli ineludibili: da un lato, l'eredità biblica con la Torah, segno di identità, fonte di tradizione, guida ideale e spirituale; d'altro lato, la strumentazione lessicale e concettuale offerta dalla cultura greca, straordinario tramite di dialogo e di ermeneutica del dato biblico.
In pratica, potremmo dire che l'intellettuale ebreo di allora era teso tra Gerusalemme e Alessandria d'Egitto. In quest'ultima città sbocciano, infatti, personalità eccezionali, come il citato Filone a cui Calabi riserva un denso ritratto di oltre cinquanta pagine, ma fioriscono anche altre opere sorprendenti. Accenneremo solo a due scritti di grande impatto. Il primo fu un vero e proprio evento redazionale che condizionò lo stesso cristianesimo, ossia la traduzione in greco della Bibbia detta "dei Settanta", un atto coraggioso che collocava la Scrittura sacra ebraica nell'areopago della cultura ellenistica "pagana" e in seguito nella Scrittura sacra cristiana. Il Nuovo Testamento, infatti, com'è noto, usò questa versione per le sue citazioni bibliche e la consegnò ai secoli successivi lasciando una scia che non fu mai cancellata neanche quando entrò in scena in modo prepotente la Vulgata latina di Girolamo che detronizzò questa preesistente traduzione greca.
Ai Settanta, Bibbia di ebrei destinata agli ebrei della Diaspora, ma anche ai greci ed ereditata dai cristiani (non c'è bisogno di ricordare la leggenda, narrata in un testo noto come Lettera di Aristea, dei 72 traduttori che tradussero separatamente in 72 giorni l'Antico Testamento, offrendo alla fine un prodigioso risultato identico), dedica un saggio accurato Natalio Fernández Marcos che dirige la resa spagnola di questa Bibbia greca e che ci ha già presentato in passato uno studio sulla Bibbia dei Settanta, edito da Paideia nel 2000. Interessante nelle sue pagine è il capitolo riservato al confronto coi testi biblici emersi a Qumran nel deserto di Giuda. Si ha, infatti, la sorprendente scoperta – nei documenti di quelle grotte – di una tipologia testuale biblica ebraica analoga a quella usata dai Settanta e spesso diversa dal modello codificato poi dai cosiddetti Masoreti nelle loro edizioni ebraiche della Scrittura (modello che ancor oggi costituisce un punto di riferimento). In seguito, come si diceva, «la Settanta divenne la Bibbia degli autori del Nuovo Testamento.
Parlavamo sopra di due opere significative del giudaismo ellenistico. Oltre ai Settanta, l'altra è il cosiddetto Libro della Sapienza o Sapienza di Salomone, infondatamente attribuita da san Girolamo a Filone, un testo «scritto direttamente in greco, in una lingua estremamente raffinata ed elaborata che utilizza hápax legómena, vocaboli rari, espressioni fiorite e poetiche e presenta una struttura letteraria concentrica», come osserva la Calabi. A questo scritto, particolarmente rilevante per l'escatologia giudaica e cristiana, Armin Schmitt dell'università di Regensburg, ha dedicato una sua traduzione e un commento essenziale ma sostanzioso, segnalando la collocazione di frontiera di quest'opera, capace di rielaborare la dottrina e la storia ebraica in chiave dialogica con la cultura greca, ma affacciandosi idealmente anche al futuro: la Sapienza, infatti, «ha avuto un'influenza determinante sull'elaborazione della cristologia del Nuovo Testamento».
Fermiamoci qui in questa approssimativa carrellata bibliografica "giudaica", non senza però aver consigliato uno sguardo anche al Nuovo Testamento, soprattutto a quel Vangelo che ha ricevuto non poche accuse di antigiudaismo. Ebbene, una decina di studiosi affronta con rigore e senza imbarazzi questa delicata questione nella raccolta di saggi Giovanni e il giudaismo. Anche qui ci troviamo su un crinale, perché se è vero che da un versante i "Giudei" sono il simbolo dell'incredulità del mondo nei confronti di Cristo, è altrettanto vero che sull'altro versante si ha un ritratto di Gesù che partecipa al culto di Israele e ha sulle labbra una frase lapidaria: «La salvezza viene dai Giudei» (Giovanni 4,22). È, quindi, necessario procedere con cautela in quelle pagine evangeliche, sempre evocando la definizione che ancora Filone ci ha lasciato del sapiente: egli è un methórios, ossia un uomo di frontiera che deve saper custodire i confini, le distinzioni e le identità, senza però ignorare le diversità, la molteplicità, la complessità delle tante terre dello spirito e della cultura.

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