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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2011 alle ore 08:15.

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Di Gino Olivetti, segretario generale della Confindustria per un quarto di secolo dalla sua fondazione nel 1910, si può ben dire che sia stato il protagonista per eccellenza dell'opera di aggregazione e legittimazione sociale che diede voce e diritto di cittadinanza alla nascente classe imprenditoriale. Poiché contribuì in modo determinante a porre le fondamenta di una sua robusta rappresentanza unitaria (rispetto a un nucleo precedente di sodalizi sparsi localmente e per lo più fragili) e poi a elaborare le linee direttrici di quella che sarebbe presto divenuta la principale organizzazione di categoria del mondo economico italiano.
Del ruolo preminente svolto da Olivetti (che, va precisato, non aveva alcun legame di parentela con Camillo Olivetti, fondatore dell'omonima impresa di Ivrea) al vertice della Confederazione, numerosi sono i riferimenti in diversi saggi (a cominciare da quello comparso quasi cinquant'anni fa di Mario Abrate, riguardante la Lega industriale di Torino) che sono stati dedicati alle vicende della nostra prima industrializzazione. E ciò perché egli non si limitò a fare da spalla ai presidenti man mano avvicendatisi a capo dell'associazione imprenditoriale ma fu sovente l'ispiratore di alcune delle loro principali decisioni e comunque un collaboratore altrettanto sagace che prezioso, ma con una propria indipendenza di giudizio. Del resto, Olivetti fu anche un parlamentare nelle file dei liberali e membro di importanti commissioni parlamentari. Tuttavia, mancava finora una sua biografia che ripercorresse l'itinerario di questo alfiere per tanto tempo della causa industrialista e ricostruisse la trama e l'ordito dei suoi propositi e delle sue iniziative nel quadro della politica economica dall'età giolittiana agli anni centrali del periodo fascista. È quanto ha fatto adesso una giovane studiosa dell'Università di Siena, Eleonora Belloni.
La sua accurata ricerca conferma ulteriormente le singolari attitudini e lo spessore culturale di un personaggio che, dopo aver perfezionato la sua formazione all'estero (in Gran Bretagna, Francia e Germania) ed essersi convertito dagli studi giuridici a quelli economici, fu tra i primi in Italia a farsi promotore sia del taylorismo sia dell'«organizzazione scientifica» del lavoro, e a creare le basi (attraverso un rapporto negoziale-conflittuale con i sindacati, e principalmente con la Fiom di Bruno Buozzi) di un moderno sistema di relazioni industriali. Eletto nel 1919 alla Camera per il «Partito liberale economico» e artefice, insieme al presidente della Confindustria Ettore Conti, del compromesso con la Confederazione generale del Lavoro che, con la regia di Giolitti, pose fine nell'ottobre 1920 all'occupazione operaia delle fabbriche (a quel tempo considerata, da molti osservatori, il prologo di un moto rivoluzionario come quello dei Soviet in Russia), egli fu inizialmente dell'opinione che fosse possibile "costituzionalizzare" il fascismo: non diversamente, del resto, da quanto ritenevano, oltre a gran parte degli industriali, i principali esponenti della classe dirigente liberale all'indomani del l'avvento al potere di Mussolini. Ma si oppose poi alle pretese del sindacato fascista di ottenere la rappresentanza collettiva dei lavoratori nelle fabbriche; poiché diceva che, di questo passo, gli industriali si sarebbero svegliati un giorno vedendo sventolare sulle loro fabbriche «la bandiera nera delle corporazioni», che non era affatto «meglio di quella rossa».
Dopo il delitto Matteotti, fu Olivetti a stendere di suo pugno il memoriale del 9 settembre 1924 con cui la Confindustria chiese al governo il «ripristino dell'ordine e della legalità», nonché «il rispetto delle libertà sindacali per tutti, operai e industriali». Ma troppo tardi per impedire l'instaurazione della dittatura.
Già prima di allora Olivetti non era mai piaciuto a Mussolini e, lui, del resto, non s'era mai impegnato a fargli cambiare idea. Né s'attenuò successivamente, lungo la strada, l'idiosincrasia del duce nei confronti del massimo dirigente della Confindustria, anche perché questi non aveva celato il suo dissenso per la sopravvalutazione nel 1927 della lira a «quota novanta», nel cambio con la sterlina, in quanto penalizzava duramente le imprese esportatrici. Finché, dopo l'istituzione delle Corporazioni, il commissariamento nel gennaio 1934 della Confindustria offrì il destro a Mussolini per eliminare, una volta per tutte, dalla scena un personaggio scomodo al regime e a lui inviso come Olivetti: tant'è che lo scioglimento degli organi direttivi confindustriali venne considerato da molti come un provvedimento concepito ad hoc dal duce. Rimosso dalla Confindustria, Olivetti seguitò tuttavia, come documenta la sua biografa, a occuparsi con la consueta perspicacia, sebbene da posizione defilata, di questioni economiche e dei problemi del sistema produttivo, dalle colonne di riviste e giornali (tra cui «La Stampa», dato che il senatore Agnelli gli aveva assicurato un contratto di collaborazione). Ma, dopo le leggi razziali del giugno 1938, egli dovette riparare in Svizzera e rifugiarsi infine in Argentina dove morì nel 1942 (probabilmente di tubercolosi da cui era affetto da tempo), all'età di sessantadue anni.
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Eleonora Belloni
La Confindustria e lo sviluppo economico italiano. Gino Olivetti tra Giolitti e Mussolini
il Mulino, Bologna, pagg. 304, € 24,00

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