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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2011 alle ore 08:14.

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I critici, gli scrittori italiani parlano in questi ultimi tempi dei libri di Paolo Sortino e Marco Mancassola. Il motivo è semplice: per chi scrive, entrambi pongono una questione estrema dietro un'apparente questione semplice. Quella semplice è: come raccontare la cronaca nera in un romanzo? – e qui le implicazioni sono di sociologia della letteratura: il rapporto tra narrativa e media, la diffusa morbosità sociale, il confronto con un new italian epic eccetera. Quella estrema è: ce la può fare la letteratura oggi a dirci qualcosa sulla verità dell'uomo? – e qui il piano si sposta sull'estetica, l'antropologia, la teodicea.
Entrambi partono da un nucleo di dolore fortissimo e ne fanno narrazione: per Sortino è il caso di Elisabeth Fritzl, ragazza austriaca, segregata per 24 anni dal padre, stuprata un'infinità di volte, costretta a ogni forma di violenza immaginabile; per Mancassola sono cinque famose storie tragiche italiane (Dirk Hamer, Federico Aldrovandi, Alfredino Rampi, Giuseppe Di Matteo, Eluana Englaro).
Come procedono? In direzione totalmente opposta. Scrittori di talento, virtuosi della pagina, utilizzano questa capacità in modo speculare. Sortino la eleva a potenza, Mancassola si mette la sordina. Elisabeth è un romanzo che vuole affabulare e alle volte brillare a ogni riga. Non saremo confusi per sempre utilizza uno stile fiabesco, ipotattico, a tratti didascalico.
Quale è il risultato? Per alcuni critici Sortino riesce a dare soluzione all'impasse, perché diventa lo scrittore di un tempo che non ha più storia, di un'umanità che è post-umana, che va a ripescare strutture pre-logiche per darci conto del male: il mito, l'ossimoro, il graffito. Per altri critici Mancassola anche lui riesce a dare una soluzione all'impasse, e lo fa invece attraverso la paradossale sovrapposizione, la leggerezza, la visionarietà delle favole.
Io credo che quello di Sortino è un libro atroce, scritto tecnicamente benissimo, ma al tempo stesso terribile. Perché compie un'operazione artistica straziante: utilizzare il nome e cognome di una persona viva e vittima di violenza, la sua storia, senza chiederle il permesso e prescindendo dalla verità storica, per costruire un ibrido ingestibile al lettore. La nota all'inizio del libro («nonostante sia diffusa all'interno del romanzo una certa aderenza al reale svolgimento dei fatti, la presente opera non possiede alcun valore documentale») non è un incantevole ossimoro, ma un non sequitur che deresponsabilizza il gesto dello scrivere. L'idea che ci si possa appropriare invasivamente del portato simbolico della vita di qualcun altro è una sfida troppo grossa per poter essere intrapresa.
Al contrario, Mancassola decide di riraccontare la cronaca con uno sguardo evasivo, estraneo, morbido, e incantato. E il confine tra la invenzione e il mistero della realtà è così netto che somiglia veramente a quel lenzuolo che mettiamo a coprire i morti. I personaggi di Non saremo confusi per sempre riescono a uscire da quell'iconicità cristallizzata delle fotine in cui l'abbiamo conosciuti (pensate all'immagine di Alfredino con la maglietta a righe o quella di Eluana con i capelli lunghi) e tornare a un mondo in cui tutto ha un senso, si muore e si vive, si nasce e si piange sul nostro passato, si immagina un futuro. Elisabeth ci toglie forse qualcosa al nostro essere umani, Non saremo confusi per sempre forse ce ne fa riscoprire un pezzetto.
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