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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2011 alle ore 08:15.
Già al tempo in cui le veline erano solo le informative riservate degli organi di sicurezza, il potere politico repubblicano si produceva in intrecci spericolati all'ombra delle istituzioni dello Stato. Intrecci popolati da esponenti di cordate rivali dello stesso partito di Governo, faccendieri e millantatori, ministri ed eversori, e che appaiono più fitti e confusi nelle fasi di passaggio da un equilibrio politico a un altro. Se state pensando alle cronache di queste ore siete fuori strada. Ma forse non del tutto. Perché il documento che anticipiamo, rinvenuto dagli storici Alessandro Marucci e Stefano Simoncini tra le carte di Amintore Fanfani nel corso del complesso lavoro di edizione dei diari del politico aretino, racconta una pagina inedita della storia italiana di mezzo secolo fa. Quando la lunga e sofferta transizione dal centrismo al centrosinistra, in particolare intorno alla crisi politica e di piazza del luglio 1960, produsse fibrillazioni che Aldo Moro avrebbe poi ricordato nel suo Memoriale come «il fatto più grave e più minaccioso per le istituzioni intervenuto in quel l'epoca». Eppure anche allora come oggi, senza bisogno di magistrati d'assalto o della circolazione via internet di intercettazioni o verbali d'interrogatorio, si racconta di un conflitto interno al partito di Governo combattuto a colpi di informazioni riservate e con l'uso partigiano di apparati dello Stato, sullo sfondo di un sottobosco di personaggi particolarmente abili nel prosperare anche materialmente tra le pieghe informali del potere pubblico.
I fatti di quei mesi sono noti. Nel 1958 Amintore Fanfani è all'apice del potere. Riunisce in sé le cariche di presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e segretario della Dc, completando un'ascesa personale realizzata sullo sfondo della crisi democristiana aperta con le elezioni del 1953. I tratti della sua leadership sono, all'interno del partito, una capillare organizzazione della Democrazia Cristiana con il controllo della corrente di maggioranza e, nel Governo, la linea del "progresso senza avventure" con l'apertura a sinistra e l'alleanza con il Psdi di Saragat. Contro l'egemonia fanfaniana va addensandosi una vasta opposizione interna alla Dc, mossa da un lato dalla destra di Antonio Segni, Giulio Andreotti e Mario Scelba e dall'altro dal protagonismo presidenzialista di Giovanni Gronchi. Il logoramento del Governo Fanfani conduce nel gennaio 1959 alle sue dimissioni da tutte le cariche e il mese dopo all'incarico di Governo a Segni. Protagonista dapprima secondario e poi fondamentale del passaggio politico è il deputato marchigiano Fernando Tambroni Armaroli. Già centurione fascista della Milizia contraerea di Ancona, poi fedelissimo di Gronchi e soprattutto ministro degli Interni ininterrottamente dal luglio 1955, nei mesi della crisi Tambroni si muove con spregiudicatezza ricevendo infine dal Quirinale nel marzo 1960 l'incarico a formare un Governo che avrebbe dovuto avere il solo compito di approvare i bilanci ma che si trasforma subito in un inedito esperimento di esecutivo sostenuto dai voti del Movimento Sociale che di lì a poche settimane sarebbe stato travolto dagli scontri di piazza di Genova, Catania e Reggio Emilia.
Quel che era meno noto, e che il documento rinvenuto da Marucci e Simoncini contribuisce a chiarire, è l'attivismo con cui Tambroni si mosse già tra il 1958 e il 1959 per indebolire Fanfani e per accumulare materiali utili alla propria ascesa ricorrendo illecitamente agli apparati di sicurezza di cui peraltro era responsabile dinanzi al Parlamento. Colpisce in particolare la formazione di una sorta di "polizia segreta" composta da vigilantes, che Tambroni costituì nell'eventualità di un suo allontanamento dagli Interni e a cui vennero affidati compiti sia di controllo delle sezioni democristiane romane sia di sorveglianza sui comportamenti privati di avversari politici interni alla Dc. Non meno rilevante è l'intenso lavoro di pressione e adulazione a cui furono sottoposti numerosi giornalisti politici, con il contorno di profili grotteschi e attualissimi come quello di Maurizio Rodinò: ex "squattrinato", altrove nel documento descritto come «persona di poco conto sul livello intellettuale», poi salito al ruolo di regista «di attività le più disparate e tutte legate al fine politico tambroniano» grazie a frequentazioni vacanziere e partite di poker a casa Tambroni.
I due storici, nell'introduzione a un loro volume di prossima pubblicazione sulla "guerra politica" del 1959-60, inquadrano questi episodi in un "piano Gronchi-Tambroni" precedente alla crisi del luglio 1960 e volto a introdurre «una gestione personalistica e un modello di Governo attraverso cui guidare il Paese al di sopra dei partiti e della società civile, probabilmente nell'intento di ratificare il rafforzamento di fatto delle prerogative del presidente della Repubblica e certamente di coagulare forze che miravano a rompere, come era accaduto in Francia, il farraginoso sistema dei partiti aggravato in Italia dall'ipertrofia del partito dei cattolici». Certo è che il documento (una nota informativa anonima e datata 5 febbraio 1959) appare anche come una tappa del tradizionale dualismo conflittuale tra apparati di sicurezza dello Stato. Secondo Marucci e Simoncini, difatti, il dossier fu realizzato da uomini del Sifar, presumibilmente su invito di Fanfani, e deve dunque essere letto nel quadro delle tensioni tra il servizio di sicurezza interno e la direzione Affari riservati di stretta osservanza tambroniana. Un dossier che fu quindi concepito come strumento di lotta politica dallo stesso Fanfani e che secondo i due studiosi ebbe un qualche ruolo nell'impedire che Tambroni fosse confermato al vertice degli Interni nel Governo Segni del 1959. Un quadro nel quale si inserisce anche Aldo Moro, che proprio in quelle settimane emerge come leader democristiano alla guida dei Dorotei e che era talmente consapevole delle manovre del ministro degli Interni da chiedere ai Carabinieri di vigilare sui vigilantes di Tambroni. Con l'effetto inevitabilmente comico descritto da Ettore Bernabei in una conversazione citata dai due autori: «Moro si accorse di questi tizi che pedinavano lui e altri democristiani e allora chiamò il comandante dell'Arma dei Carabinieri, generale Lombardi, e lo informò del fatto, pregandolo, se possibile, di mettere un carabiniere alle calcagna di ogni vigilante assoldato da Tambroni… Sicché, capisce, quando uno di noi andava a fare una passeggiata si formava una specie di corteo, davanti il democristiano, dietro il metronotte di Tambroni e dietro ancora il carabiniere di Moro». Ma più in generale è lo stesso quadro nel quale riconosciamo, come ha scritto Miguel Gotor nel suo recentissimo lavoro sul Memoriale dello statista democristiano assassinato dalle Brigate Rosse, «una caratteristica strutturale della dimensione effettuale del potere italiano, ossia la compresenza di elementi istituzionali e informali, costituzionali e materiali, ordinativi e sovversivi nel medesimo progetto di Governo».