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Questo articolo è stato pubblicato il 03 luglio 2011 alle ore 08:14.

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L'imprenditore Guido Alberti, Maria Bellonci e Giangiacomo Feltrinelli festeggiano la vittoria del «Gattopardo» nel 1959L'imprenditore Guido Alberti, Maria Bellonci e Giangiacomo Feltrinelli festeggiano la vittoria del «Gattopardo» nel 1959

Giacomo Debenedetti diffidava dei saggi critici intorno ad altri saggi critici, li definiva un «ozioso gioco degli specchi». C'è sempre da trarre profitto, invece, quando è uno scrittore a commentare il libro di un altro scrittore. Negli incontri più fortunati il guadagno sarà doppio: se ne potrà ricavare il franco richiamo a una poetica comune, quantomeno la confessione involontaria di un dettaglio significante. Il cono di luce gettato sull'opera esaminata, insomma, rileverà per contrasto o per similitudine anche qualcosa che appartiene all'opera dello scrittore-critico (con il trattino, solo per distinguerlo dallo scrittore oggetto della critica).

È ormai proverbiale nella letteratura italiana del Novecento il caso di Calvino, che nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno riconosce a Fenoglio di aver scritto già, con Una questione privata, il romanzo sulla Resistenza «che tutti avevamo sognato». E però, ammettendo preliminarmente il primato di un libro costruito come «un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti», sembra richiedere, anche per il suo Sentiero, un lettore capace di andare oltre il semplice resoconto di fatti storici.

Si tratta dunque di un gioco non ozioso ma produttivo, che vale sia quando i due scrittori condividono largamente una stessa esperienza formativa e generazionale, come Calvino e Fenoglio appunto, sia quando lo scrittore-critico si accosta a un'opera pubblicata alcuni decenni prima, gettando un ponte oltre lo scorrere delle mode letterarie. È quanto fa la selezione dei Premi Strega proposta dal Sole 24 Ore, offrendo ai lettori opere che in moltissimi casi sono già entrate nel canone del secolo appena trascorso, e che però producono tuttora nei contemporanei echi e derive, quando non filiazioni dirette. Lo dimostrano i prefatori, spesso premiati allo Strega essi stessi, che hanno accettato di rileggere per questa collana, per esempio tra gli altri Pavese (Nico Orengo), Tobino (Vincenzo Pardini), Ortese (Elisabetta Rasy), Dessì (Marcello Fois), Levi (Ernesto Ferrero). Pochi autori come Michele Mari, ad esempio, avrebbero potuto approfondire l'inattualità linguistica e le strategie di travestimento della parola in Bufalino (Premio Strega 1988 con Le menzogne della notte), funzionali alla messa in scena di personaggi doppi, metafore di una sostanziale ambiguità dell'io: "personaggi-lingue", come lo stesso Mari in uno scritto autoriflessivo definisce gli attori del suo La stiva e l'abisso. Sovente gli scrittori seguono nella stratificazione delle opere pregresse una loro vena aurifera, evidenziano linee di sviluppo, generano i loro stessi padri letterari.

Per una felice, doppia coincidenza temporale, sono passati 50 anni dalla vittoria di La Capria allo Strega con Ferito a morte, dieci dall'affermazione di Domenico Starnone con Via Gemito. All'inizio del nuovo millennio Napoli era già, e sarebbe rimasta poi, una delle città più raccontate della narrativa italiana contemporanea, e La Capria un maestro riconosciuto da almeno un paio di generazioni di scrittori. È lo stesso Starnone a ricordare nella prefazione a Ferito a morte stampata in questa collana che, diciottenne, lesse il romanzo lo stesso anno della pubblicazione, trovandovi fin da allora la soluzione a un precoce rovello letterario: come trasformare una città letteralmente "inenarrabile" nella «sintesi di una condizione planetaria» e come riscattare attraverso la narrazione proprio quegli eccessi estetici e morali che di Napoli sembrano elementi inamovibili, parte del paesaggio come la collina di Posillipo e il profilo del Vesuvio. Quella sera del 6 luglio 1961, per novantasei volte la voce di Luigi Barzini, presidente della giuria, scandì nel Ninfeo di Villa Giulia il nome di Raffaele La Capria, per novantacinque volte ciascuno quelli di Giovanni Arpino e Fausta Cialente. Anche per quel doppio vantaggio di un voto fu un'edizione speciale, ma non solo. Vennero ammessi alla seconda votazione sei autori finalisti anziché cinque (le sestine allo Strega si contano in tutto sulle dita di una mano). Quell'anno concorsero per la vittoria infatti anche Natalia Ginzburg, Augusto Frassineti e Fabio Tombari. E se gli ultimi due nomi si perdono nelle cronache letterarie della prima metà del Novecento, lo Strega del 1961 lasciò fuori da Villa Giulia scrittori del calibro di Lalla Romano, Giovanni Testori e Sciascia con Il giorno della civetta.

Non è dato sapere quanto gli Amici della domenica che votarono La Capria (scrittore quasi quarantenne e quasi esordiente: il suo primo libro era uscito con poco clamore nel '52), colsero gli elementi di novità di una prosa intessuta di monologo interiore che, mentre rinviava alla narrativa europea d'inizio secolo, collocava fra parentesi la fiducia in un racconto oggettivo della storia per dare forma alle insicurezze di un figlio della jeunesse dorée napoletana. Dopo Tomasi di Lampedusa, toccava a un altro narratore del sud elevare a emblema di uno scacco insieme storico ed esistenziale un personaggio vinto dal sentimento negativo di sé, ormai fuori da ogni implicazione regionalistica. Ma in quel balzo, forse soltanto sognato, dalle profondità marine a un interno borghese che non cessa di stupire all'inizio di Ferito a morte, c'era un quanto di modernità in più: «Per lunghi oscuri corridoi sottomarini, ombre come alghe viola, e gelo in tutto il corpo. Man mano che si abitua a quel morto chiarore distingue le poltrone del salotto, il lungo tavolo di legno scuro, il paralume verde». Valeva la pena rileggere un brano di quella prima pagina tanto "folgorante" che Starnone racconta di aver voluto subito copiare in un quaderno di citazioni.

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