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Questo articolo è stato pubblicato il 03 luglio 2011 alle ore 08:17.

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Fino a non molti anni fa, gli incontri tra cinema e filosofia erano infrequenti e occasionali, non solo in Italia. I filosofi sfioravano il cinema per caso, imbarazzati; mentre sull'altro versante, la teoria del cinema preferiva legittimarsi come disciplina attraverso il lessico della semiologia. Da un po' di tempo, tra i due ambiti sembra invece in corso una vera storia d'amore. I filosofi si confrontano col cinema, li usano volentieri come raccolte di exempla, e talvolta offrono analisi di notevole pertinenza (la recente lettura di The Tree of life fatta da Emanuele Severino sul «Corriere della Sera»); mentre citare i filosofi è diventata per gli studiosi di cinema quasi una moda.
Certo oggi sorridiamo ricordando quando, nell'Italia dominata dalla cultura crociana, ci si chiedeva timorosi se il cinema fosse o no un'arte. Ma oggi c'è invece il rischio che il cinema non sia più, per la filosofia, un problema: in nessun senso. Un pericolo ad esempio è di considerare soprattutto i film come storie che permettono di illustrare problemi filosofici, senza che il cinema stesso diventi davvero oggetto di riflessione. In questa direzione andavano ad esempio Da Aristotele a Spielberg di Julio Cabrera, o i libri di Umberto Curi. Troppo spesso insomma rimane inevasa la domanda che Stanley Cavell ha posto come titolo di un proprio saggio: «Cosa succede alle cose in un film?» – che implica poi un'altra domanda: «Cosa succede a chi guarda un film?». Per dar conto dell'intreccio di ansie collettive, creazione individuale, sistema della comunicazione può apparire salutare allora l'approccio "selvaggio" di un pensatore come Slavoj Zizek, che non esita davanti alle implicazioni estreme e oscene del visibile (la violenza, la pornografia).
Ma nel corso del Novecento, quelle immagini in movimento, a dispetto dell'immediata analogia con le ombre ingannevoli della caverna di Platone, hanno spesso funzionato come un richiamo al difficile rapporto tra la conoscenza e gli oggetti, e più ancora al sensibile, al peso della singolarità. Filosofi provenienti da tradizioni culturali diverse e con percorsi lontanissimi, per un attimo sembrano sfiorarsi nella sala cinematografica, cercando forse cose non troppo diverse. Maurice Merleau-Ponty, alla fine degli anni Quaranta, si interessava al cinema mentre cerca di recuperare il corpo, grande rimosso della filosofia a partire dall' "io penso" di Cartesio. Siegfried Kracauer mostrava che il cuore del cinema è la «redenzione della realtà fisica», e dunque l'anima vera del film va cercata nel documentario. Decenni dopo, Gilles Deleuze leggerà i registi come se fossero filosofi, cercando il pensiero che sta dietro i loro stili, e anche a lui il cinema offre spunti alla teoria della conoscenza: l'inquadratura e il suo contenuto, ad esempio, il movimento di macchina e l'oggetto ripreso, sono per lui un tutt'uno, per questa via egli ripensava il rapporto tra singolo e totalità, oltre la dialettica. Sull'altra sponda dell'oceano, Cavell usa il cinema come luogo di confronto con ciò che ci è prossimo: una «filosofia delle immagini comuni», potremmo dire, sulla scia della "filosofia del linguaggio comune" del suo maestro J. L. Austin.
Oggi il cinema, in crisi storica e di identità, può essere più che mai un elemento problematico, un oggetto di riflessione. E per gli studiosi di cinema, uno dei vantaggi della filosofia sarebbe quello di considerare i film non come "testi", ma come parti di un'"esperienza" (conoscitiva, emotiva, sociale) che contribuisce a creare gli schemi in cui il mondo viene conosciuto e sentito. Il cinema rimane un banco di prova per il pensiero, per il nostro rapporto con il "reale": l'ultimo numero (il 46) della «Rivista di estetica», curato da Domenico Spinosa e dedicato all'«Ontologia del cinema», parte proprio dalla necessità di pensare il cinema nel momento della sua morte (o reincarnazione), nel tempo delle immagini digitali. E non è un caso che tornino di moda oggi i primi teorici del cinema (da Munsterberg a Balasz), che un secolo fa si trovarono davanti le immagini in movimento su uno schermo, affascinati e sgomenti come il Serafino Gubbio di Pirandello. Giunto alla fine della sua parabola, il cinema suscita inquietudini simili a quelle che provocò al suo primo apparire.
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Allora tutto il film della mia vita mi è passato davanti agli occhi in un istante. E io non ero nel cast! Woody Allen

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