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Questo articolo è stato pubblicato il 03 luglio 2011 alle ore 08:17.

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Sotto la lente dell'analisi filologica passa persino il non memorabile Dieci canoe (2006) dell'australiano Rolf de Heer, sottoposto a un vaglio attento a causa della sua "mitopoiesi aborigena", celata sotto la trama tragicomica dei dieci navigatori che vanno alla ricerca di un Graal molto particolare, le uova di oca o anitra selvatica necessarie per un rituale aborigeno australiano (il film, tra l'altro, è tutto recitato in quelle lingue marginali). Ma sfilano anche i film che sono quasi un vessillo di nobiltà della settima arte: dalla Giovanna d'Arco di Dreyer e da Lancillotto e Ginevra di Bresson alla "santità impossibile" della Viridiana buñueliana, dalla "kenosi sacrificale" cristologica del Giovanni delle Bande Nere del Mestiere delle armi di Olmi alla "soteriologia al femminile" dell'enigmatico Inland Empire presentato nel 2006 alla Mostra di Venezia da David Lynch, giù giù fino allo "spettacolo" della religione in Fellini o al "cammino iniziatico" tra colpe e abusi dell'Edipo re pasoliniano e persino ai peplum films e a quel monumentale e sontuoso polpettone maya che è l'Apocalypto di Mel Gibson (2006).
Ciò che, comunque, interessa è la consapevolezza sempre più diffusa del nesso tra cinema e religione: è appunto questo il titolo di un volume molto attraente che due studiosi, a prima vista lontani da tale orizzonte, uno storico e una studiosa di letteratura cristiana antica, hanno allestito convocando una dozzina di esperti di varie discipline. La domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole proprio perché il linguaggio teologico è di sua natura simbolico, per non parlare poi del cristianesimo che ha nel suo cuore l'Incarnazione che rende un volto umano, quello di Cristo, eikôn, «icona, immagine» – come scrive san Paolo ai Colossesi (1,15) – del Dio invisibile. Non per nulla i primi due saggi di questa raccolta si consacrano all'esplorazione del trascendente evocato nel cinema e alle forme del sacro che in esso si configurano.
Non secondario, poi, è il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono di loro natura performativi. La "sacramentalità" dell'atto liturgico ha un'analogia nell'efficacia dell'"azione" cinematografica che "attua" nello spettatore ciò che rappresenta.
Un libro, quindi, che è collocato sul crinale dal quale si diramano sia il versante dell'annuncio della fede sia quello della comunicazione visiva contemporanea. Considerato spesso dialetticamente come alternativo, il cinema in realtà rivela una sorprendente "sororità" con la religione, con la spiritualità, col trascendente, col rito e col mito e non tanto per la valanga delle pellicole bibliche o agiografiche e neppure soltanto per gli straordinari capolavori di Dreyer, Bresson, Bergman, Tarkovskij, Olmi e così via, ma persino quando adotta la contestazione del religioso, e qui il pensiero spontaneamente va a quell'"ateo per grazia di Dio" che fu Buñuel.
Dicevamo prima che l'interesse per l'intreccio tra fede e cinema si fa sempre più vivo (noi stessi è forse la quarta volta che ci ritorniamo su queste pagine). Ebbene, in una collana che s'intitola nientemeno che «Letture patristiche» abbiamo un'altra suggestiva raccolta di interventi che questa volta mirano al nesso tra Bibbia, letteratura e cinema, frutto di un convegno dal titolo denotativo «... E la "Parola" si fece film». Già sopra mettevamo in guardia nei confronti dei colossal biblici sul modello della Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), del Grande Pescatore di Frank Borzage (1959) o del Re dei re di Cecil de Mille (1927), che ebbe anche un remake di Nicholas Ray negli anni Sessanta: non si badava a spese e a effetti, per ottenere alla fine un'iconografia enfatica, capace di rasentare persino il sadismo come nell'esagitata Passione di Cristo di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film...). Ora, in questo libro le molte voci che intervengono non ignorano il fenomeno delle pellicole religiose popolari, che pure ebbero una loro funzione "didattica": ad esempio, non manca un'analisi della Tunica di Henry Koster (1953), che è però un prodotto pregevole, considerato come l'estremo tentativo del cinema per contrastare l'avanzante impero televisivo, e anche del Golgota didascalico di Julien Duvivier (1935). L'orizzonte degli autori del volume si allarga, però, ai grandi emblemi non solo cristologici a partire dall'imprescindibile Pasolini, ma anche esistenziali e spirituali ove affiorano la crisi, la tentazione, il male e il Maligno e si ammicca pure al caleidoscopio dell'apocrifo. Entrano, poi, in scena il bernanosiano-bressoniano "curato di campagna", il buñueliano Nazarin, "folle per Cristo", la crittografia cristica di Olmi, il Satana di Dreyer e di tanti altri registi, la Madre-vergine di Godard, il Pilato apocrifo di Wajda, la genesi del male con il riproposto Lynch dell'Inland Empire e così via, fino a un curioso e a me ignoto Seoul Jesus, lungometraggio di debutto (1986) del coreano Jang Sun-woo, il cui protagonista è un alienato mentale che si professa il Gesù escatologico destinato a fustigare e a giudicare la corruzione della storia. Ma a questo punto vorremmo virare verso una prospettiva molto specifica e originale, un'«altra visione», come dice il titolo del terzo e ultimo volume del nostro trittico su cinema e fede. È lo sguardo femminile che s'affaccia sul mistero di Dio, naturalmente sempre attraverso una carrellata di immagini filmiche. Il testo, curato da una cartoonist e da un critico cinematografico, è infatti sottotitolato «Donne che dicono Dio nel cinema». Esemplare è la scena di apertura tratta dal primo dei celebri dieci film dedicati al Decalogo da Kies´lowski. Il nipotino chiede alla zia di spiegargli l'esistenza di Dio, mentre la sta abbracciando e le dice: «Ti voglio bene». E la zia, allora, risponde: «Dio è in questo!». Ma subito dopo c'è il terribile silenzio divino che devasta l'anima del pastore luterano di Luci d'inverno (1962) di Bergman con la maestra Marta, l'atea che si oppone al credente Algot, il sacrestano. Il viaggio prosegue in una straordinaria galleria filmica che non vede solo il bagliore della mistica con l'Edith Stein della Settima stanza di Márta Mészáros (1995), ma anche la corporeità come segno sacro (si pensi al Kadosh di Amos Gitai), e che ha in Maria full of grace di Joshua Marston (2004) il suo apice come «corpo che Dio ha preparato per Cristo». Altre quattro tappe simboliche propone questo volume, tutte scandite con vocaboli latini (traditio, iter, occursus, pignus) e sempre affidate a voci e volti femminili fino all'ultima presenza, quella della Rachida dell'algerina Yamina Bachir Chouikh (2002), l'apologeta di Dio di fronte alla crudeltà umana: «Dio è innocente di tutto questo massacro, di tutti i crimini che l'uomo compie in suo nome». Anche se spesso è vero per una poltiglia immensa di immagini filmiche deteriori, il cinema autentico non merita la definizione del pur geniale Artaud: «Gioca solo con la pelle delle cose, con l'epidermide della realtà». No, il grande cinema scende nella profondità delle anime e può ascendere fino alle "cime abissali" dell'infinito.

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