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Questo articolo è stato pubblicato il 10 luglio 2011 alle ore 08:15.

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L'estate scorsa i giornali americani contenevano pagine di pubblicità della Bank of America che promuovevano la parsimonia. La banca non avrebbe più permesso ai propri clienti di fare pagamenti con le carte di debito se non avessero avuto un ammontare equivalente sul conto corrente. In sostanza, smetteva di far credito ai consumatori.
Il monito, figlio della crisi dei subprime, segnava un netto stacco rispetto a cinquant'anni di incoraggiamento morale ed economico al debito. Nel 1971, la Household Finance Corporation, storica società di credito al consumo, pubblicava un librettino di istruzioni alle famiglie, Children's spending per spiegare come educare i bambini alle virtù del credito. I genitori avrebbero dovuto sgridare i figli oculati che volevano mettere i soldini nel salvadanaio invece di spendere per le cose che desideravano. La virtù, non stava nel risparmio, ma nell'ottenere un buon merito di credito, nel programmare acquisti e un piano realistico di rimborso del debito. Questo dovevano insegnare le famiglie americane ai propri rampolli.
Nella distanza tra queste due opposte interpretazioni della virtù del bilancio casalingo c'è tutta la storia del debito delle famiglie americane, dal boom del dopoguerra, fino alla tragica crisi finanziaria degli ultimi anni. Uno strumento finanziario che ha avuto un ruolo fondamentale nell'evoluzione economica e sociale delle famiglie, in un perverso e confuso intreccio tra sistemi di valori e strategie di marketing delle società finanziarie. La Debtor Nation, la nazione di debitori, come si intitola il bel libro del giovane storico della Cornell University, Louis Hyman.
La storia dei conti in rosso ebbe inizio con il New Deal, quando il governo americano cercò di stimolare i consumi e la domanda favorendo la diffusione dei mutui e dei prestiti alle famiglie. Nel dopoguerra il denaro a prestito divenne il motore del boom economico. Gli americani dei sobborghi uscivano da case comperate con un mutuo su automobili acquistate a rate per andare a fare shopping con le carte di debito dei supermercati.
La disponibilità di credito favorì una convergenza nei livelli di consumo. Le classi medie comperavano a debito i beni che i ricchi potevano comperare in contanti. Gli operai delle fabbriche e gli impiegati guadagnavano meno delle classi professionali, ma vivevano vite materiali molto simili. Tutto questo era alimentato da una prospettiva di crescita continua dei redditi, come in effetti avvenne tra il 1945 e il 1970.
L'uguaglianza dei consumi si tradusse però in un'accelerazione della disuguaglianza della ricchezza. I fiumi di denaro spesi per beni superflui e per gli interessi rallentavano l'accumulo di patrimonio delle classi meno abbienti. Questo non era un problema fintanto che i redditi salivano, ma lo divenne quando con la stagflazione dei primi anni Settanta le classi medie iniziarono a perdere potere d'acquisto. A quel punto il credito tornò a essere uno strumento di welfare, servì a stabilizzare i consumi e a pagare le spese mediche o semplicemente a difendere uno status. Ma se poteva sostenere i consumi nel breve periodo, prima o poi i debiti andavano ripagati. I conti in rosso degli americani a quel punto erano sostenibili soltanto se il valore dei loro beni capitali continuava a crescere. Questa funzione impropria del credito come strumento di supporto di consumi che le classi medie non potevano più permettersi è stata la crepa che con alti e bassi negli anni ha infine portato alla crisi di tre anni fa.
L'espansione del credito è legata comunque dalla creazione e dallo sviluppo di un nuovo mercato, dove la remunerazione degli investimenti è diventata sufficiente ad attrarre immense risorse finanziarie. Un buon esempio è quello della diffusione delle carte di debito. Queste non nacquero dai businessmen o dalle banche, ma dalla ben più banale interazione tra le casalinghe e i department stores dei sobborghi. I grandi magazzini capirono che per supportare i consumi dei loro clienti dovevano fare credito. Ma il conto a fine mese, stile macellaio sotto casa, non poteva funzionare nell'impersonalità delle migliaia di rapporti commerciali che intratteneva qualunque business di dimensioni rispettabili. Vennero allora varate le prime «Charga-Plates», delle specie di carte di debito di metallo, dove la disponibilità di dollari dipendeva da valutazioni oggettive sulle condizioni economiche dei clienti, piuttosto che da relazioni personali.
I crediti delle Charga Plates rendevano ai magazzini un interesse, ma avevano lo scopo finale di alimentare gli acquisti nei negozi. Per questo, la diffusione delle carte di credito e debito bancarie, fu lenta. Per i grandi stores le carte emesse da altri comportavano un costo invece di un ricavo (chi emetteva la carta tratteneva una parte dei ricavi), e non potevano essere utilizzate per fidelizzare i clienti. L'identità credito-negozio si ruppe del tutto negli anni Ottanta, solo quando i department stores si resero conto di non avere capitali sufficienti a finanziare la continua espansione dei consumi e strutture adeguate a gestire un'attività di credito complessa. Ma il meccanismo ultimo che determinò l'esplosione delle carte, come di tutti gli altri strumenti di credito alle famiglie, fu la possibilità di rivendere i titoli di credito a terzi. Se l'acquisto di un frullatore a Milwaukee poteva dar luogo a un titolo finanziario che di mano in mano e impacchettato con un'infinità di altre transazioni arrivava nel portafoglio di un investitore cinese o filippino, la disponibilità di credito poteva moltiplicarsi all'infinito. Ma si moltiplicava in violazione del merito di credito, verso usi e individui che non erano in grado di generare risorse sufficienti a ripagare quanto dovuto.

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