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Questo articolo è stato pubblicato il 16 luglio 2011 alle ore 15:47.

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«I signori in sala sono pregati di disattivare i telefoni cellulari e di non eseguire scatti fotografici o filmati durante l'esibizione. Qualsiasi azione possa arrecare disturbo agli artisti comporterà l'immediata sospensione del concerto». Questo appello a Napoli è stato già letto tre volte: nel '96 al Teatro Bellini, nel 2005 all'Arena Flegrea e nel 2009 al San Carlo. Sarà letto di nuovo lunedì 18 luglio sempre nel massimo teatro partenopeo. È a queste precise «condizioni» che hanno inizio i concerti di Keith Jarrett, il musicista jazz che più di tutti ha frequentato la melodia, l'esecutore classico che più di tutti ha creduto nell'improvvisazione.

Il pianista statunitense torna nel capoluogo campano, città di cui a quanto pare ama le contraddizioni, per la prima data di questo minitour italiano che lo vedrà di nuovo protagonista, giovedì 21 luglio, al Teatro degli Arcimboldi di Milano. A dividere con lui il palco i «compagni fidati» da una vita, il bassista Gary Peacock e il batterista Jack Dejohnette, quelli con i quali ha rivoluzionato il concetto di standard jazzistico (vedi alla voce «Setting standards») e con cui condivide la stessa idea aristocratica della «musica classica nera».

Un live act – quello napoletano - che ha il sapore di evento, come fu per le performance di Vienna e della Scala, entrambe immortalate da album dedicati. Un appuntamento per il quale le richieste di biglietti provengono da mezza Europa. Come sempre accade quando si tratta di Jarrett, gli aneddoti leggendari anticipano l'artista. Nel 2005, accompagnato sempre da Peacock e Dejohnette, pretese la presenza di enormi stufe da esterno sul palco. Eppure era il 12 luglio. Due anni fa raggiunse Napoli due giorni prima dell'esibizione, per meglio «assaporarne» le atmosfere primaverili (era il mese di maggio), le stesse che ispirarono i vari Gioacchino Rossini e Gaetano Donizzetti, veri e propri habitué del San Carlo. Atmosfere che questo straordinario esecutore, periodicamente affetto da una misteriosa «sindrome di affaticamento», restituì al pianoforte. Il «precedente» del San Carlo in piano solo andò così bene che il Nostro ha preteso di tornarci col trio. Set blindatissimo: vani i tentativi dell'entourage del teatro napoletano di procurarsi dettagli sulla scaletta.

Il parallelo che viene in mente quando si parla della carriera di Jarrett è impegnativo, ma obbligato: Wolfgang Amadeus Mozart. Il talento del pianista americano, come quello del compositore di Salisburgo, è stato precocissimo: nato nel 45 in Pennsylvania, a cinque anni già raccoglieva premi radiofonici, a sette improvvisava, a dodici si dedicava al jazz. La prima incisione risale al ‘62 (con l'apparizione in un album dell'orchestra di Don Jacoby), prima del trasferimento a New York, dove accompagna artisti affermati come Roland Kirk e Art Blakey. Ma sono gli anni Settanta quelli della svolta: nasce il primo trio a suo nome (con Charlie Haden e Paul Motian), parte la collaborazione con la band elettrica di Miles Davis e ha inizio la pubblicazione dei suoi album di piano solo per la prestigiosa casa discografica Ecm. Uno su tutti ne consacra il mito: «The Köln concert», lunga improvvisazione in due parti che ha rivoluzionato il meno rivoluzionabile tra gli strumenti. La Napoli del 2011 varrà la Colonia del 1973? Può essere. Quando Jarrett siede al piano, può sempre essere.
Keith Jarrett, Gary Peacock, Jack Dejohnette

«World Tour 2011»; Napoli, Teatro San Carlo, 18 luglio 2011
Milano, Teatro degli Arcimboldi, 21 luglio 2011

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